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Poco o nulla sembra essere cambiato, nel cuore della Chinatown di Prato. Rispetto alle immagini delle metropoli cinesi semivuote, via Pistoiese, la direttrice principale del Macrolotto Zero, pare infatti sempre uguale a se stessa: frenetica e trafficata. Eppure basta intaccare appena la crosta dura di una comunità poco incline ad aprirsi all’esterno, soprattutto ai giornalisti, per capire che la paura c’è. Eccome. «Sono sicuro che il governo e i militari risolveranno questa situazione», dice H.X., 34enne di Wenzhou, la città dalla quale proviene la stragrande maggioranza dei cinesi residenti a Prato.
Wenzhou dista 847 chilometri da Wuhan, il focolaio del coronavirus. H.X. abita a Prato dal 2003, lavora in un’azienda che fornisce servizi ai cinesi, in pieno Macrolotto Zero, aiutandoli a pagare le tasse e a compilare i 730. La direttiva, all’interno della comunità cinese di Prato, pare essere una: non parlare del coronavirus.
Non si sa chi abbia imposto, silenziosamente, tutto questo. Chi parla, minimizza, incorrendo anche in qualche contraddizione: «I miei genitori sono in Cina, ma non sono preoccupati – continua H.X. –. Mia mamma comunque preferisce non uscire da casa. Per sicurezza». H.X. riferisce di notare meno cinesi a giro, anche nel quartiere del Macrolotto Zero.
Forse qualcuno fa come Fabio (che vuole sia citato solo per nome, senza cognome), imprenditore di via Pistoiese, che è tornato ieri dalla Cina. La solita Wenzhou, i soliti 847 chilometri di distanza, ma una pseudoquarantena autoimposta dopo il ritorno a Prato. «Mi sono sentito con altri miei amici di Roma tornati da poco anche loro dalla Cina – riferisce Fabio – e abbiamo detto che è meglio stare a casa per quindici giorni, per essere sicuri di non esserci ammalati e di non diffondere la malattia». Fabio lo chiama «autocontrollo».
C’è chi sta chiuso in casa e c’è chi esce. Con la mascherina. A Prato non siamo alla psicosi della mascherina registrata in città come Roma, ma un incremento delle vendite nella farmacia di quartiere si è comunque registrato. «I cinesi hanno sempre comprato tante mascherine, credendo di proteggersi così dalle polveri sottili, ma è innegabile che in questi giorni ne comprino di più. Presto le nostre scorte saranno esaurite» spiega il titolare della Farmacia Etrusca di via Pistoiese, il dottor Gennaro Brandi, autore di un bel gesto di solidarietà: ha donato 10.000 mascherine monouso al Tempio buddista di Prato Pu Hua Si.
«Ecco perché Prato è una città bellissima – ha detto il segretario del Tempio buddista, Davide Finizio –; provvederemo ad inviare subito le mascherine a Wuhan, dove è impossibile ormai trovarne. Il governo cinese ha detto che si accollerà le spese di spedizione». Sempre per solidarietà, quest’anno i dragoni che avrebbero dovuto sfilare per il centro nei festeggiamenti per il capodanno cinese l’1 e il 2 febbraio sono per il momento archiviati. «I festeggiamenti sono inopportuni in questo momento così difficile per i cinesi; da una riunione con il console abbiamo deciso di soprassedere ed eventualmente rimandare le sfilate». Intanto, accanto alla solidarietà si sta manifestando anche qualche episodio di razzismo. È la scuola l’arena dove si annidano i pregiudizi.
«Ho due bambini alle elementari e l’altro giorno sono tornati a casa dicendoci che a scuola i loro compagni italiani li hanno chiamati 'Cinavirus' tutto il giorno » dice H.X.. E non ci sono solo i bambini: «Nella nostra regione, i ragazzi che si assentano da scuola devono presentare il certificato solo se il figlio viene mandato a casa con la febbre oppure dopo cinque giorni di assenza – spiega il presidente della provincia di Prato, Francesco Puggelli –. In tutti gli altri casi il certificato non deve essere richiesto. Purtroppo nelle nostre scuole, sull’onda dell’emotività e della paura generate da notizie infondate, ci sono stati casi in cui il certificato è stato richiesto anche dopo un solo giorno. Questo non serve a proteggerci, rischia solo di generare ansie e timori immotivati».