«Sì è vero. C’è proprio una tecnica per attirare i giocatori patologici. Io l’ho sperimentato sulla mia pelle. Non pensavo più ai soldi ma solo a quei colori e a quelle luci. Mi giravano nella testa anche di notte. Mi avevano proprio fregato... ». Agostino, pugliese, 65 anni, ex giocatore - «ma non siamo mai guariti, contiamo solo i giorni» - ha letto l’articolo di
Avvenire di domenica sulla ricerca americana sui meccanismi usati dalle società dell’azzardo per incrementare la dipendenza e ci vuole raccontare la sua esperienza. Lo incontriamo a Roma, all’ostello della Caritas diocesana, in occasione dell’incontro di studio organizzato dalla Consulta antiusura per il Giubileo della Misericordia. È qui perché ora il suo impegno è portare ai ragazzi delle scuole il messaggio che «l’azzardo fa male. La vita per me è stata amara. Oggi posso dire di aver intrapreso un nuovo percorso di vita, che mi sta portando al recupero personale e a dare un senso ai miei giorni. Lo faccio come un nonno che ha sbagliato e prova a spiegarlo ai nipoti».
Come ha cominciato? Ero vedovo. Ho vissuto male l’impatto dell’uscita dal lavoro e l’entrata nel mondo della pensione. Lì ho visto la mancanza di una persona vicina. Così mi sono rifugiato in quello che io chiamo 'il mondo dei colori'.
Quindi è vero che c’è un sistema per attrarre le persone più deboli... Certo che c’è una tecnica per attirare i giocatori patologici. Tanto è vero che io ho iniziato coi 'gratta e vinci'. Allora non ce n’erano tanti come oggi ma erano coloratissimi, proprio per convincere ad acquistarli. Poi sono passato alle 'macchinette' che ti distruggono. Non pensi neanche ai soldi che metti dentro le slot ma vai solo per vedere il colore, quel disegno. La cosa più brutta che ricordo è che quando cercavo di riposare di notte mi girava davanti agli occhi come un arcobaleno. Anche con gli occhi chiusi io stavo in una sala giochi, davanti a quello schermo colorato.
Un modo per fregarvi... Ci hanno fregato. Quando sei in quella fase di distruzione non pensi altro che ad andare avanti, anche disposto a rubare.
Con quali conseguenze? In tre anni e mezzo mi sono giocato quaranta anni di lavoro. In poco tempo ho fatto un macello. Mi sono giocato tutto: la liquidazione, compreso un grosso incentivo per andare in pensione prima, e anche la casa. È stato devastante, sono finito in mano agli usurai che prima sono gentili e poi dei martelli pneumatici.
Ora ne è uscito? Si sente guarito? Non gioco da sei anni. È dal 2010 che sono in recupero in un gruppo di 'Giocatori anonimi'. Conto i giorni. Noi giocatori non siamo mai guariti perché la compulsività ti può tornare in qualsiasi momento. Noi viviamo sulle 24 ore: oggi io non devo giocare, ma domani è un altro giorno. Si va avanti così. E sono arrivato a sei anni.
Come ha deciso di cambiare? Chi l’ha aiutata? Devo dire grazie a chi mi ha portato il primo giorno, ma ancora prima 'Qualcuno' che si chiama Dio. Io la sera precedente avevo tentato il suicidio. Poi mi sono detto: «Devo dire qualcosa a un amico». Questa persona, un ex collega, mi ha portato direttamente alla Fondazione antiusura di Bari. Ci sono andato pensando «io li frego di nuovo, vado a chiedere altri soldi». Invece ho scoperto una vita nuova grazie a un bigliettino che mi diceva di rivolgermi là (si commuove), a quell’indirizzo, dove avrei trovato un gruppo di autoaiuto. E da lì vado avanti.
Un giorno per volta... Le mie 24 ore. Finalmente mie... Senza luci e colori ma tanto più belle.
E lo va a raccontare nelle scuole. Cosa dice ai ragazzi? Porto il messaggio del 'nonno' che ha consumato tutto per il gioco e che loro non devono farlo. La prima volta è stata in scuola elementare e per me è stato un’esperienza fortissima, mi sono commosso. Soprattutto per le loro domande. Io per loro ero proprio il nonno. È stata una carica in più per portare il messaggio poi ad altre scuole.
Cosa le dicevano? Un bambino albanese mi ha detto: «Nonno perché hai giocato? Non potevi comprarti una bicicletta e andare a passeggiare?». È stata una cosa bellissima che mi ha fatto capire molto (si commuove ancora). Così torno spesso nelle scuole. Per sentirmi impegnato, perché la mia vita possa essere di aiuto.