Commissionare un figlio in Ucraina costa tra i trentamila e i cinquantamila euro. Stessa cifra, salvo sconti, in India. È la legge del mercato, quello della fecondazione eterologa e degli uteri in affitto. Le pratiche vanno a braccetto, nel resto del mondo. Tra il poter avere un figlio grazie ai gameti di qualcun altro e l’acquisto del pacchetto “completo” – con tanto di utero e gravidanza appaltati – il passo è breve, soprattutto per le donne in età avanzata, oppure per le coppie gay e i single. Il diritto ad essere genitori a tutti i costi si compra, e a farlo sono molti italiani. Conseguenza inevitabile, si diceva, della legge 40 del 2004. Che lo scorso 8 aprile è stata smantellata anche in quello che restava l’ultimo baluardo contro il far west della provetta: il divieto all’eterologa. Ma l’Italia sembra voler correre, sul terreno scivolosissimo della provetta, ed ecco che – proprio mentre sotto i riflettori della cronaca finisce il clamoroso errore del Pertini, con la prima eterologa e la prima maternità surrogata “coartate” – dal tribunale di Milano arriva anche la prima assoluzione piena su un utero in affitto. Come dire: se si vuole, si può fare. La sentenza è di inizio settimana e fa seguito ad altri casi di coppie tornate dall’estero con un figlio non loro finite poi in tribunale. In questo caso i due italiani aveva commissionato un bambino in Ucraina, stipulando – con esperti avvocati e mediatori navigati – un “negozio procreativo”, senza neppure conoscere le due donne che (in subappalto) hanno dovuto eseguirlo: la prima – la madre genetica – ha “donato”, ovvero venduto, l’ovocita fecondato; la seconda – la madre biologica – ha fatto col suo corpo da incubatrice portando a termine la gestazione. Solo dopo è spuntata la terza donna – la madre committente, o sociale –, cui è stato consegnato il neonato. Secondo una prassi ormai standardizzata la coppia, ottenuto il certificato di nascita, ne ha chiesto la registrazione alla nostra ambasciata. Punto problematico, visto che chi si presenta come genitore in realtà non lo è secondo le leggi del nostro Paese e incappa in due reati: l’alterazione di stato e le false dichiarazioni a pubblico ufficiale. E proprio su questi reati si erano pronunciati altri tribunali, arrivando a escludere in alcuni casi il primo ma mai il secondo. Ecco invece il colpo di mano dei giudici milanesi: non solo non esiste alterazione di stato, ma addirittura non si potrebbe più parlare nemmeno di «contrarietà all’ordine pubblico». Per dire la confusione assoluta che regna nei palazzi di giustizia: appena cinque mesi fa (il 26 novembre 2013) il tribunale di Brescia ha condannato a cinque anni una coppia per «alterazione di stato». E l’8 aprile il Gup milanese Gennaro Mastrangelo ha condannato i «genitori tecnologici» a 16 mesi per «false dichiarazioni». Decidendo di leggere con la sentenza le «motivazioni contestuali ». C’è scritto che certe pratiche sfruttano «la miseria di altre donne»; che, in casi come questi, «il progetto genitoriale non appare giustificato»; che un figlio ad ogni costo può essere un «indebito strumento di soddisfazione». C’è la preoccupazione che accontentare gli adulti, pur adeguandosi al progresso scientifico, significhi negare il diritto dei figli a conoscere le proprie origine genetiche e la mappa del proprio Dna. Parole e riflessioni pesanti, che soltanto tra 90 giorni potranno essere confrontate con le motivazioni della sentenza dello scorso lunedì. Solo allora il pm potrà ricorrere in appello. Tempi lunghi di una giustizia che, in casi come questi, appare sempre più schizofrenica.