«La situazione è drammatica, in galleria Bombi le condizioni di vita non rispettano il minimo delle esigenze umane. È urgente intervenire prima che avvenga l’irreparabile». Carlo Redaelli, da 5 anni arcivescovo di Gorizia, ha da poco visitato la galleria Bombi insieme al vicario episcopale per la Caritas, don Stefano Goina, e al direttore della Caritas diocesana, don Paolo Zuttion, e ne è uscito sconvolto: «Trovo incomprensibile l’assenza delle istituzioni, che per legge se ne devono occupare, mentre solo i volontari si attivano e suppliscono con grande umanità ai doveri del Comune.
Il fenomeno immigrazione è molto complesso e può essere risolto solo a livello nazionale e internazionale », riconosce, «ma a livello locale deve comunque essere governato e gestito, perché qui abbiamo persone, esseri umani come noi». Invece a parte i 120 della Bombi, i quasi 300 profughi presenti in città in convenzione con la Prefettura sono tutti accolti in strutture della Chiesa, come l’istituto 'Nazareno' «messo gratuitamente a disposizione dalle Suore della Provvidenza», l’istituto 'San Luigi' dei Salesiani dove vivono 40 minori non accompagnati albanesi e kosovari, o i container del 'San Giuseppe', «in origine installati da Medici senza Frontiere su terreno della diocesi, ora presi in affitto da noi, con tutti i legittimi permessi dati dal precedente sindaco (Ettore Romoli, sempre di Forza Italia, ndr ), una 'autorizzazione in precario' che però scadrà a giugno... Poi cosa succederà?».
Il sindaco Ziberna «fa bene a protestare nelle sedi opportune se anziché i 90 richiedenti asilo 'dovuti' ce ne sono 400, e ha ragione a chiedere di spostare la Commissione per l’esame delle domande di asilo a Trieste e Udine», ma nel frattempo «non può restare senza far niente di fronte a un problema di salute pubblica, ha il dovere di garantire a quelle persone igiene e dignità. Possibile che il Comune non abbia una sola struttura pubblica da mettere a disposizione?». D’altra parte, sottolinea Redaelli, la gran parte sono tornati in Italia solo per ottenere il rinnovo dello status di rifugiato, «sono 'dublinanti' che poi ripartiranno. Alcuni hanno anche soldi e sono vestiti in modo dignitoso, è vero, ma questo perché in Europa avevano un lavoro, che male c’è? Ma mentre sono qui tra noi seppure provvisoriamente, non possiamo lasciare che vivano in condizioni tanto pietose. Mi auguro che tutti i cristiani la pensino così». È una guerra tra poveri, quella di Gorizia, perché in città sono tanti anche i senzatetto italiani – spiega l’arcivescovo – e cinquecento persone mangiano grazie alla tessera degli Empori della Solidarietà che la Caritas ha aperto a Gorizia, a Monfalcone e a breve anche a Gradisca, in collaborazione con i Comuni, la Croce Rossa e la Fondazione Carigo.
È una storia antica, qui, quella dell’accoglienza, tanto che la Commissione prefettizia sorse a Gorizia negli anni ’90 per l’arrivo dei profughi dall’Est Europa dopo il crollo del Muro di Berlino. E le ferite sono antiche, in una città (quanti italiani lo sanno?) tagliata anch’essa in due da un Muro abbattuto solo nel 2007, che era stato eretto per dividere Italia e Jugoslavia, democrazia e comunismo. Troppe le storture a livello europeo, conclude l’arcivescovo, a partire dalla Convenzione di Dublino che penalizza fortemente il nostro Paese, ma anche nella stessa politica italiana, «che da anni non prevede un decreto flussi e crea così il paradosso: o sei un rifugiato o sei irregolare, altre possibilità legali non esistono e questo non è umano».