«L’Italia riprenda l’operazione Mare Nostrum così come era originariamente concepita, come scelta politica e di civiltà». È la richiesta di Gianfranco Schiavone, membro del consiglio direttivo dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, all’indomani della notizia della morte di 17 profughi nel Canale di Sicilia. «Sono le prime vittime ufficiali del mare dopo la fine di Mare Nostrum. E, stando alle informazioni fornite, i decessi sono stati causati da ipotermia e disidratazione – sottolinea Schiavone –. E questo è un elemento di cui tenere conto».
Perché? Non si è trattato di un naufragio che, solitamente, avviene nell’arco di poco tempo. Il fatto che queste persone siano morte di freddo e di sete vuol dire che il gommone è rimasto alla deriva per molto tempo, forse anche un giorno, senza che nessuno intervenisse. Se fosse stato attivo un sistema di monitoraggio effettivo, i tempi per l’avvistamento e il salvataggio non sarebbero stati così lunghi e queste persone avrebbero potuto salvarsi.
Cosa è cambiato con il passaggio da Mare Nostrum a Triton? Le operazioni di salvataggio in acque internazionali avvengono in maniera fortunosa. Il Canale di Sicilia ora non viene più pattugliato sistematicamente e questo significa che nessuno vede più quello che avviene al di là delle 30 miglia, che rappresentano il limite delle operazioni di Triton. E anche se qualcuno riuscisse a lanciare l’allarme, potrebbe essere troppo tardi per intervenire.
Cosa chiede l’Asgi per scongiurare il ripetersi di tragedie come questa? Torno a ribadire quello che chiediamo da tempo assieme ad altre associazioni: il governo riprenda l’operazione Mare Nostrum con quelle medesime caratteristiche con cui era stata pensata. E se l’Italia, giustamente, ritiene di non potersi far carico da sola di questo impegno, allora faccia pressione sull’Unione europea perché diventi un’operazione condivisa.
Mare Nostrum è la sola risposta a queste tragedie? Oppure si può pensare a soluzioni alternative come la creazione di corridoi umanitari? Qualsiasi soluzione 'terza' non è alternativa ai salvataggi in mare. Si possono mettere in campo varie risposte, tutte parziali, ma con un obiettivo unico: ridurre i drammi in mare e 'avvicinare' la protezione alle persone che ne hanno bisogno. Vanno sicuramente portate avanti altre iniziative, anche in Paesi al di fuori dall’Unione Europea. Penso, ad esempio, a una diversa politica dei visti per motivi umanitari o al lancio di un vero piano europeo per il
resettlement (il trasferimento di quote di profughi presso Paesi sicuri,
ndr). C’è però un rischio da evitare.
Quale? Non bisogna commettere l’errore di esternalizzare il diritto d’asilo, affidando la gestione delle domande di protezione a Paesi terzi, spesso dittatoriali o instabili, che non offrono nemmeno le garanzie minime per il rispetto dei diritti umani.
Periodicamente si torna a parlare della realizzazione di campi di transito in Paesi come la Libia. Che cosa pensa di questa proposta? Sono assolutamente contrario. La Libia oggi è un Paese disgregato, uno Stato che non possiamo nemmeno più definire tale. Pensare di affidare questo compito alla Libia ha il sapore della beffa, di cosa stiamo parlando? Chi dovrebbe controllare cosa? E con quale autorità?
Cosa può fare l’Italia in sede europea? Oltre a richiedere la partecipazione dell’Unione a Mare Nostrum, deve fare pressioni per cambiare la politica europea sull’asilo. La gestione dei profughi e dei richiedenti asilo è una questione europea, per questo bisogna rivedere il Regolamento di Dublino per fare in modo che ci sia una redistribuzione dei profughi soccorsi in mare tra tutti i Paesi dell’Unione.