I danni di un bombardamento nel quartiere di Abu Salim, a Tripoli
«Non entro nel merito del Memorandum, ma quello che so e che sanno tutti è che la scelta politica di Minniti è stata quella di dialogare col territorio, e quindi con i miliziani libici, anche con i più 'cattivi', sperando di farli diventare 'buoni'». Tra lo scontro politico e i continui appelli affinchè il governo metta mano all’accordo con la Libia, Claudia Gazzini, esperta dell’International Crisis Group, scatta la foto di un Paese sempre nel caos e diviso. Un Paese con il quale da oggi, per effetto del silenzio-assenso, si rinnova l’intesa con Roma, siglata nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti. Un rinnovo, per i prossimi tre anni, con l’obiettivo principale di fermare i flussi migratori.
«In Libia la guerra continua, con pochi scontri sul terreno, ma è una guerra aerea» aggiunge Gazzini. È un Paese diviso a metà, sotto gli occhi di tutti, di quelli che vorrebbero, da una parte il 'cessate il fuoco' e dall’altra, violando l’embargo, non smettono invece di fornire armi. L’esperta libica è appena rientrata da una missione che l’ha portata a Bengazi. Alcuni mesi fa era invece a Tripoli. Sono le due città quartier generale delle opposte forze che si contendono la supremazia del territorio: una ( Tripoli) sede del cosiddetto Governo di unità nazionale, guidato da al Serraj.
L’altra (Bengazi) roccaforte del generale Haftar. «A Tripoli si assiste sempre di più allo sgretolamento dei servizi: le scuole sono chiuse, nelle ultime settimane gli insegnanti hanno scioperato. Gli edifici scolastici spesso vengono usati per ospitare i profughi di guerra e attualmente il governo non ha altri spazi da destinare – racconta Gazzini – le banche aprono a singhiozzo ed è difficile prelevare moneta contante, continuano ad esserci momenti senza elettricità mentre la città è in- vasa dalla spazzatura. A Tripoli e dintorni si vive sempre nell’insicurezza e nella paura che un missile possa caderti sulla testa da un momento all’altro ». Però la vita va avanti lo stesso, con mille difficoltà per i libici.
«Tante famiglie libiche sono state spezzate dalla guerra – prosegue – e chi può (ma sono in pochi) tenta di emigrare in Tunisia». Al momento, però, i flussi migratori dei libici non hanno ancora raggiunto, i livelli di quelli siriani. Ma nel Paese ci sono anche centinaia di migliaia di stranieri irregolari, detenuti nei centri governativi e non. Si parla di circa 700mila persone, molte delle quali rinchiuse nei centri sulle coste e nei dintorni della capitale. Per loro il caos si trasforma in orrore e inferno.
Nell’Est, invece, dove c’è la base di Haftar e del governo parallelo non internazionalmente riconosciuto, «la situazione è sorprendente» racconta l’esperta libica. «C’è un boom di infrastrutture, costruzioni e investimenti – aggiunge Gazzini – a Bengazi c’è una banca centrale parallela che concede prestiti e rinforza il business. Qui la gente non vive il senso d’angoscia della guerra: circolano i soldi, si costruiscono palazzi nuovi e c’è una propaganda mediatica che convince tutti: l’operazione di liberazione di Tripoli (come da queste parti viene chiamata la guerra, ndr) è quasi terminata, pensano, e la vittoria è vicina». Ma sul campo la situazione è diversa. Haftar ha pochi uomini e non ha le forze per prendersi il Paese. E continua a bombardare dai cieli. In tutto questo, l’Italia può far poco.
«Dal punto di vista strategico italiano, visto soprattutto a lungo termine, un pilastro che nessuno mette in dubbio è quello di garantire l’operatività dell’Eni – aggiunge Gazzini – e alla fine non si può fare a meno di lavorare su molteplici livelli». Da una parte c’è la stabilizzazione di un Paese nel caos e dall’altra c’è la questione dei flussi migratori che da lì partono per raggiungere l’Europa e l’Italia. «Esistono due approcci: c’è chi dice 'con le milizie non si tratta' e chi invece, come l’Italia, dice che sono una realtà sul territorio e 'dobbiamo partire da lì', cooptarli: renderli da cattivi a buoni e farli passare da quelli che sono i trafficanti a quelli che fermano i flussi». «Non mi stupisce che il Viminale abbia invitato Bija (il noto trafficante di uomini, come documentato con tanto di foto su Avvenire da Nello Scavo, ndr) perchè faceva appunto parte di questa strategia. Questi personaggi non sono mai stati messi al bando ma si cercava di usarli a proprio uso e consumo».