«La prossima volta che chiamerai potrebbero dirti che il vescovo di Tangeri è in prigione, accusato di traffico di esseri umani. In quel caso, non sorprenderti. Chiunque cerca di aiutare i migranti rischia la criminalizzazione, oltre al linciaggio mediatico. Sono stupito, anzi, che non mi abbiano ancora arrestato. L’altro giorno, c’è mancato un soffio». Monsignor Santiago Agrelo, da dieci anni pastore dell’arcidiocesi di Tangeri, ama scherzare. Stavolta, però, è serio. L’intensificarsi dei “salti” lungo la rete intorno a Ceuta ha fatto crescere esponenzialmente la pressione della polizia sugli irregolari. Nella città, a un’ottantina di chilometri dall’enclave spagnola, i controlli sono continui. Nella zona di Benyunes – la radura montuosa che si estende ai lati della strada per Ceuta – va ancora peggio. «Or- mai non riesco più nemmeno a dare loro da mangiare», spiega l’arcivescovo che, ogni lunedì e giovedì, si reca nella zona per portare cibo ai migranti.
Perché mai?
Quando si parla di “pressione migratoria” si intende sempre la pressione esercitata dai migranti sulle frontiere. Mai si discute della pressione che le frontiere – e le forze di sicurezza incaricate di difenderle – esercitano sui migranti. Le frontiere non hanno fame, sete, non si ammalano. I migranti sì. Le loro legittime necessità, però, passano in secondo piano. L’importante, secondo la retorica politica, è proteggere le frontiere. In quest’ottica, l’aiuto all’irregolare sta diventando un delitto. Basta poco per finire accusato di essere «complice» o, peggio, «trafficante». Ripeto: la settimana scorsa, avrebbero potuto arrestare anche me.
Cosa è accaduto?
Mi recavo a Benyunes a portare da mangiare ai migranti, come faccio sempre. Sul ciglio della strada, però, non c’era nessuno. Il giorno precedente, la polizia marocchina ne aveva catturati decine. Il resto si era nascosto molto in fondo, dentro la boscaglia. Ho provato a cercarli, ma non li trovavo. Stavo per andare via, quando sono spuntati tre subsahariani, giovanissimi. Erano stremati. Erano fuggiti insieme agli altri, nella parte più interna della montagna. Là non c’era da mangiare: erano digiuni da tre giorni. Così, alla fine, avevano deciso di tornare indietro, a Tangeri. Ho chiesto loro di mostrarmi il rifugio dei compagni. A piedi non avremmo potuto raggiungerlo, così li ho fatti salire in auto e siamo andati. Se in quel momento mi avesse fermato la polizia, come le avrei spiegato il fatto di avere a bordo tre irregolari? Agli occhi degli agenti e dell’opinione pubblica, sarei stato un trafficante pronto ad aiutare degli «illegali» a oltrepassare la frontiera o un cristiano deciso a dare da mangiare a un gruppo di disperati?
Ci ha pensato?
Una frazione di secondo. Ma sono un vescovo. Come mi giustifico di fronte a Dio per aver lasciato migliaia di fratelli a digiuno per paura? La situazione umanitaria di quanti cercano di saltare la valla è insostenibile. Ogni volta che qualcuno riesce a passare, la repressione diventa feroce.
Come ha trovato i migranti quando li ha raggiunti?
Affamati, spaventati, molti feriti. Uno aveva la mandibola completamente fracassata. I media descrivono i “salti” come «assalti» violenti da parte degli irregolari. In realtà, è l’esatto contrario. Tantissimi si feriscono sul filo spinato messo appositamente da Madrid sulla rete come strumento di dissuasione. I poliziotti, marocchini e spagnoli, poi, non hanno la mano leggera. Tanto non ci sono giornalisti a raccontare il loro operato: i reporter non possono avvicinarsi alla valla. Stavolta, per fortuna, uno è riuscito a fare un video che dimostra le violenze.
Da chi è formato il 'popolo di Benyunes'?
Da subsahariani giovani, adolescenti direi. La gran parte – provenienti da Guinea Conakry, Camerun, Nigeria – sono minori non accompagnati. Certo, loro non lo dicono. Ma basta guardarli in faccia per notare che i più non si sono mai fatti la barba. Forse è perché sono così giovani che riescono a sperare. Anche nella trappola di Benyunes.