«Non sono un eroe. Semplicemente, nei miei venti metri quadrati voglio fare quel che ritengo giusto». Quando Loris Alberici rilevò il Bar Chocolat, in pieno centro storico di Piacenza, in eredità si ritrovò una slot machine. «Un bar deve rimanere bar. Se uno vuol giocare a soldi ci sono le sale slot o le sale giochi», afferma da dietro il bancone. Ma recedere dal contratto stipulato con la ditta noleggiatrice si rivelò subito abbastanza complicato. «Alla scadenza mancava un anno, ma io quella macchinetta non la volevo e cercai di capire come liberarmene. Pensai di staccare la spina, ma le slot delle tabaccherie o dei bar sono collegate coi Monopoli, che in diretta, con una sorta di Gps, rilevano quanto denaro entra e quanto esce. Non potevo perciò spegnerla e tantomeno metterci un cartello con scritto: guasto; qualsiasi cosa fai deve essere giustificata. Se poi la stacchi senza autorizzazione, mi aveva avvisato il noleggiatore, scattano i controlli». Un anno, si disse alla fine Loris, passa presto. Se la slot non poteva toglierla, però, decise di limitare i danni. «Prima era in bella vista davanti alla vetrina, io la spostai in un angolo, dietro la porta, e ingenuamente cercai di nasconderla con il cartello di un fornitore. Dico ingenuamente perché quel manifesto pubblicizzava una marca di the e così mi sono ritrovato a pagare una multa per non aver versato l’Ica (Imposte comunali affini,
ndr)». Non era l’esercente a trattare con i Monopoli. Per Loris tutto passava attraverso il noleggiatore. «Io dovevo anticipare i soldi delle vincite e svuotare la slot. Ci trovavo dentro sempre almeno 800-1.000 euro. I giocatori? Tra gli abituali, due signore anziane: ci passavano delle ore, di solito dalle 8 del mattino alle 11.30. Poi stranieri, in particolare dell’Est europeo. E il giocatore di passaggio. Quello che entra senza salutare, si fa cambiare 20 euro in monete da uno, le butta nella slot e, sempre senza dire una parola, se ne va».«Entravano – ricorda il barista – anche personaggi non troppo raccomandabili. Una volta a un ragazzo feci presente che di lì a dieci minuti avrei abbassato la serranda. “No, io ci ho messo 600 euro e adesso la macchinetta deve pagarmi”, rispose minaccioso. Gli dissi che non mi interessava, che avrei chiuso per le 19. “Domani quando apri?”, mi chiese. Alle sette. “Allora torno a quell’ora e non fare giocare nessuno prima di me se no son guai”». Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Anche se mancavano ancora sei mesi alla scadenza del contratto, Loris comunicò al noleggiatore che la macchinetta non la voleva più. «Ho firmato che mi prendevo tutta la responsabilità in caso si presentasse un funzionario dei Monopoli. E l’ho restituita». Grazie alla slot nel bilancio del bar entravano circa 200 euro a settimana. «Sono esentasse – fa notare il barista – e in più non hai costi di alcun tipo. Se si fosse trattato di caffé, invece, avrei dovuto togliere dal ricavo la spesa del prodotto, della corrente per la macchina e la lavastoviglie, dell’usura delle tazzine...». Pentito? «No, ho rinunciato ai soldi, ma ho guadagnato nuovi clienti che prima non entravano per via della slot. Certo, un incentivo sul piano fiscale non sarebbe male – osserva – ma io l’ho fatto anzitutto perché sono padre, perché mi immedesimo con i familiari delle persone che si rovinano la vita col gioco. È un gesto piccolo. Il mio locale è di soli venti metri quadrati, ma senza slot». Una in meno, in una città che ha una macchinetta ogni quattro abitanti.