Desta per lo meno stupore, se non proprio sconcerto, la dichiarazione del presidente leghista della Lombardia, Attilio Fontana, in risposta a quanto detto mercoledì dal segretario generale della Cei, Stefano Russo, in sereno dialogo col compagno di partito di Fontana (e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) Giancarlo Giorgetti sulla questione delle autonomie regionali. «Credo che abbia letto poco la nostra riforma, che la conosca meno di come io conosco il Vangelo», ha sentenziato il governatore accusando il vescovo di «genericità, qualunquismo e non conoscenza del contenuto che lascia esterefatti».
Parole gravi e senza senso. L’esatto contrario di quelle pronunciate dal segretario generale della Cei. Rileggiamole: «La questione delle autonomie regionali non può risolversi – se non a prezzo di erodere la radice della nazione – nel 'festival dei particolarismi', nel frazionamento o nel separatismo. Cosa resterebbe dello Stato, se il Paese si muovesse secondo una cittadinanza differenziata e diseguale? Come Chiesa siamo sì a favore dell’autonomia, ma all’interno di un quadro di condizioni che impediscano di trasformarla in un grimaldello con cui scardinare la casa comune».
A leggere poco e male le espressioni di Russo è, dunque, stato proprio Fontana. Altrimenti si sarebbe accorto che la Chiesa non è affatto contraria all’«autonomia» (e alla sussidiarietà, princìpi costituzionali tanto quanto idee guida 'cattoliche'), ma invita a non farne un cavallo di Troia verso un’Italia a due o tre velocità, lontana dalla solidarietà scolpita dalla Costituzione, che all’articolo 5 proclama la Repubblica «una e indivisibile». Nessuno può imporre a Fontana di leggere il Vangelo, ma è troppo chiedergli di conoscere almeno la Carta fondamentale dello Stato?