Nevica. Gli albergatori fremono per aprire la stagione sciistica e martedì mattina i bambini torneranno a scuola. Un inverno normale, a Selva di Val Gardena. Esattamente come a Wuhan, dopo i test di massa sul coronavirus. Il primo screening sulla popolazione di una intera provincia italiana è in corso da ieri in Alto Adige. Ci si mette in coda anche nel buen retiro dei presidenti della Repubblica. Siamo al centro di una delle zone più rosse del Paese. L’esperimento che può cambiare la storia «è iniziato molto bene», come ha detto in serata il governatore Arno Kompatscher: ieri sera erano stati esaminati 103.580 cittadini ed erano stati riscontrati 1572 positivi (1,5%). Le somme si tireranno solo domani sera, ma già si respira un’atmosfera da tutto esaurito. In 350mila residenti sono stati chiamati a sottoporsi volontariamente al tampone rapido. Servirà a tracciare il morbo. Il sistema è meno accurato, forse, ma anche meno fastidioso del tampone classico, il pcr. Lo dovrebbero fare quasi tutti gli abitanti in età attiva (per esser precisi il 67%), esclusi malati e bambini. L’azienda sanitaria ha pronti 500mila kit antigenici.
Qui a Selva, alle otto del mattino, la Casa della Cultura è già aperta. Accettazione, una breve attesa, quindi l’esplorazione del naso con il cotton fioc, qualche goccia su un rilevatore e – diversamente dal pcr oro- rinofaringeo, che va poi trattato in laboratorio – in un’ora si riceve il risultato, con un sms. Il referto è protetto da una password, a tutela della privacy. «Non siamo in Cina – spiega il vicecoordinatore Patrick Franzoni – e nessuno sarà mai costretto a fare il test, ma gli altoatesini si rendono conto che hanno la possibilità reale di sconfiggere il Covid 19 e perciò auspichiamo un’affluenza del 60%». Annuiscono Alma e Cosma, in attesa del loro turno. Gestiscono un ristorante con ottanta tavoli nel centro del paese: «È l’unica chance che abbiamo di cancellare questo flegello e tornare a lavorare, a vivere». Alle loro spalle c’è Lino Balzanelli. Ha fatto il cameriere per 53 anni: «Mi sottopongo al test per me e per gli altri, ma soprattutto per gli altri. Dobbiamo fare ciò che è utile per tutti e tutti staremo meglio».
Qui regnava Maria Teresa d’Austria e si capisce da come fanno la coda. Ciascuno ha ricevuto sulla posta elettronica l’orario a cui presentarsi. «Sta filando tutto liscio, non c’è assembramento ed è merito del Comune – spiega Matthias Runggaldier, che coordina questo centro di raccolta – perché ha attivato una procedura di prenotazione online e il flusso qui è ordinato e rapido». Se non è andata come a Bolzano, dove le code ci sono state, è merito di Roland Demetz. I suoi concittatini l’hanno eletto sindaco per cinque volte e ci sarà un perché. «Quest’esperimento funzionerà – commenta lui – anche se i comuni maggiori, che sono sette, rappresentano il 50% della popolazione altoatesina e probabilmente a Bolzano e a Merano non avremo la partecipazione dei piccoli centri».
Come nell’election day, a palazzo Widmann, sede della provincia autonoma d Bolzano, si seguirà in tempo reale l’afflusso ai punti di raccolta. Questa volta, non c’è in ballo solo una poltrona. Dalla cassa di risparmio alla diocesi nevicano appelli a farsi tamponare. Alcune aziende erogano un buono di 100 euro al dipendente che aderisce all’iniziativa. L’astensione è vista come un tradimento della specie e dell’economia. Gli altoatesini, che vivono di turismo, sanno bene che non sopravviveranno ad un altro lockdown. Ma la sfida valica le Dolomiti: se funziona diventa un modello per l’Europa che vuole lasciarsi alle spalle l’annus horribilis.
In questo senso, Bolzano è la nostra Wuhan. I punti di raccolta distribuiti nei 116 comuni dell’Alto Adige sono 184, con 646 linee di test. Aiuta a convincere gli indecisi il fatto che la provincia autonoma osservi un lockdown ben più duro di quello deliberato nelle altre Regioni. Inevitabile, quando il 2% è in isolamento domiciliare, i contagi sfondano quota ventimila (su 500mila abitanti) e i morti di questa seconda ondata sono 446. Le ragioni? Forse molte. Sicuramente incidono gli scambi con Austria e Svizzera, dove il virus spopola, ma conta anche l’intensa vita comunitaria che è nel Dna degli altoatesini: l’estate è stata costellata di matrimoni e battesimi e un sorso di blaubungunder con gli amici fa dimenticare volentieri la mascherina.
Il test di massa costa 3,5 milioni di euro e impegna 900 sanitari. Moltissimi sono volontari. In cabina di regia, c’è appunto Franzoni, uno che definisce le emergenze il suo “hobby”. Da anni lavora al Dipartimento emergenza- urgenza dell’ospedale di Bolzano. Insieme al primario di rianimazione, Marc Kaufmann, è uno dei primi ad aver intuito la pericolosità del coronavirus. A marzo, mentre l’Rt saliva alle stelle anche in queste valli, hanno convinto il direttore generale Florian Zerzer ad aprire il nuovo padiglione del nosocomio, mai usato prima, per creare una unica terapia intensiva. Fino ad allora, in tutta la provincia si contavano solo 35 posti
letto: ora sono 80. Quelli per i malati di Covid-19 ammontano a 540 e sono tutti occupati. Ricchi e periferici, abituati a far da sè, gli altoatesini si sono trovati in poco tempo talmente immersi nel dramma globale che il governatore Arno Kompatscher, preso atto che entro due settimane non ci sarebbe stato più nulla da fare, ha sostenuto il primo test di massa della storia altoatesina. Un’operazione in linea di principio tanto lontana dalla tradizione locale, fatta di autonomie, lingue e stirpi diverse, familismo e individualismo. Tuttavia, esistono due precedenti. Lo screening slovacco e quello, meno noto, della val Pusteria. All’inizio di ottobre, infatti, quando si è visto dilagare il Covid, è stata testata l’intera popolazione di Sesto Pusteria e Monguelfo. Quel monitoraggio, insieme ad un rigido lockdown, ha fatto scendere la febbre alla valle: indice di contagio da 1,5 a 0,4.
«Oggi, l’infezione è ancora fortissima, l’indice di 2,6 lo dimostra – argomenta Franzoni – e fortunatamente l’esperienza di marzo ha lasciato in eredità la capacità della rete ospedaliera di lavorare all’unisono». L’Alto Adige è una delle regioni criticate in passato per aver mantenuto in attività i suoi sei ospedali, applicando un modello decisamente sovradimensionato rispetto in tempi di spending review, «ma quella scelta ci ha salvati» commenta il medico. A salvare il test di massa sarà invece la sburocratizzazione. Se c’è la possibilità di raggiungere quel 60% di copertura, dipende anche dal fatto che stavolta il senso civico costa poco. Se un altoatesino risulterà positivo, infatti, non dovrà sottoporsi ad altri esami; per lui scatterà automaticamente l’isolamento domiciliare per 10 giorni e, se lo richiede, verrà attivata la procedura per l’attestato di malattia che sarà inoltrato al datore di lavoro. Nel caso in cui la persona non presenti sintomi, all’undicesimo giorno potrà uscire dall’isolamento senza altro controllo. In caso di sintomi, il medico di base avanzerà la richiesta per un tampone naso-faringeo e in caso di esito negativo la quarantena terminerà; in caso di esito positivo si concluderà invece dopo 21 giorni – di cui almeno 7 senza sintomi – dall’iniziale esito positivo. Fino al 24 novembre, il test rapido si potrà effettuare anche nelle farmacie e presso il medico di base. «Contiamo di individuare parecchi asintomatici – segnala Franzoni – che oggi vanno al mercato e a lavorare nella più assoluta consapevolezza. Con questo test gli altoatesini romperanno la catena del contagio».
L’università di Trento ha calcolato che se partecipa al test il 30% l’indice RT precipita a 0,8 in brevissimo, con il 50% a 0,5, con il 70% si scende a livelli trascurabili; invece, con il lockdown la curva dei contagi cala in almeno dieci giorni. «Una volta raccolti i dati del test, che saranno protetti ai sensi della privacy sanitaria – spiegano al punto di raccolta di Selva – avremo la possibilità di mappare la diffusione del virus strada per strada, individuando anche i piccolissimi cluster ». Se funzionerà diremo: siamo tutti altoatesini.
In questi video parlano il cameriere Lino Balzanella, l'operatore sanitario Matthias Runggaldier e il sindaco di Selva Ronaldo Demetz.