La sanità cattolica no-profit è una componente essenziale della sanità italiana, ma viene dimenticata e discriminata - Ansa
Bollette energetiche con rincari mai visti (e inarrestabili), conti economici che saltano, appelli sempre più allarmati alle istituzioni, tutti ignorati. Le 260 istituzioni socio-sanitarie no-profit che si riconoscono nell’Aris – la rete associativa della sanità cattolica – sono ormai «sull’orlo di un irreversibile collasso».
«Non siamo mai stati così vicini al limite del non ritorno» scrive il presidente padre Virginio Bebber nell’ennesima lettera al governo, sperando in un trattamento diverso dalle precedenti: «Non abbiamo mai, dico mai ricevuto risposta» lamenta il religioso camilliano, con fermezza pari alla preoccupazione. E ricorda un’altra triste certezza: «La costante esclusione delle nostre strutture dalle decine di bozze del dl Aiuti».
Alla vigilia di «nuovi interventi a favore delle famiglie e delle imprese», come ha detto ieri il premier Draghi, Bebber torna a scrivere a lui e a tutti i ministri per far presente cosa succederà se dovesse alzare bandiera bianca per default un comparto che rappresenta circa un quarto della sanità italiana, con 4 milioni e mezzo di prestazioni sanitarie erogate ogni anno in convenzione con le Regioni, 35mila posti letto e 15mila operatori sanitari: «L’alternativa che si configura sempre più minacciosa – spiega il presidente Aris – è costringere le strutture alla chiusura, incrementando notevolmente il livello di disoccupazione, mettendo sulle spalle del servizio sanitario pubblico i milioni di malati che ogni anno trovano assistenza in queste nostre strutture (l’esperienza Covid qualche cosa dovrebbe averla insegnata), rendendo eterne le liste d’attesa per prestazioni urgenti, riempiendo i marciapiedi delle nostre città di anziani non autosufficienti, persone martoriate da patologie devastanti nel fisico che non hanno più assistenza in Rsa o Centri di Riabilitazione costretti a chiudere. Chiudere perché i costi, quadruplicati in certi casi, non sono più sostenibili senza l’aiuto dello Stato».
35mila posti letto, il 25% dell’offerta di salute nel nostro Paese: l’Aris alza la voce lamentando la «costante esclusione» dai decreti di sostegno firmati dall’esecutivo
Risparmiare sui consumi? «Non possiamo certo staccare la corrente: qualsiasi apparecchiatura elettromedicale in uso funziona con l’energia elettrica. E allora cosa dovremmo fare? Decidere ogni giorno se staccare le spine alle rianimazioni o alle terapie intensive? Oppure alle sale operatorie».
Impraticabile – per motivi etici prima ancora che economici – l’altra strada, quella dell’«aumento dei "prezzi al consumo"», una scelta «impossibile per chi come noi opera in regime di convenzione con lo Stato, se mai fosse umano considerare la salute un prodotto di mercato»: non si può «scaricare l’onere sui pazienti» perché, se così fosse, «a pagare sarebbero quanti non possono assolutamente rinunciare al "bene salute" ma non hanno mezzi economici per provvedervi».
Accorato l’appello finale: «Il nostro vuole essere solo un richiamo alla vostra responsabilità nei confronti di quei cittadini che oggi chiamate alle urne. Non stiamo certo chiedendo elemosine» ma «solo di essere messi in condizioni tali da poter continuare a servire il Sistema sanitario del nostro Paese per la salvaguardia della salute dei nostri connazionali più fragili».
Alle corde anche le realtà sanitarie rappresentate dall’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop): «Il caro energia sta travolgendo il sistema produttivo e dei servizi del Paese, in particolare la sanità – è l’allarma della presidente Barbara Cittadini –. Chiediamo pertanto che la definizione degli strumenti necessari per affrontare questo problema diventi una priorità assoluta nell’agenda politica. Gli aiuti attualmente previsti per contrastare il rincaro dei prezzi di energia elettrica e gas escludono gli ospedali accreditati di diritto privato del Servizio sanitario nazionale, i cui costi di gestione stanno diventando insostenibili. In una situazione di questo genere si rischia davvero di trovarsi costretti a limitare servizi e prestazioni di cura».