Salvini, Meloni e Berlusconi in una foto del 2021 - Reuters
Ecco le pagelle (senza voto) dei protagonisti della crisi di governo di questi giorni.
Mario Draghi
Un'uscita forse cercata fra pecche e qualche gaffe
Chi era mercoledì in Senato l’ha pensato alle prime battute del discorso: conoscendo i nostri parlamentari, i toni erano quelli giusti se l’obiettivo di Mario Draghi era... lasciare Palazzo Chigi. Non è mancato un tocco, a suo modo, di populismo quando ha accostato la «mobilitazione popolare» all’esigenza di rimanere. L’ex banchiere centrale che dettava legge dall’Eurotower con pochi atti ben ponderati, una volta trascinato nei vortici della politica si è ritrovato in questa crisi anche per alcuni errori. Uno su tutti è l’aver fatto inserire, nel "dl Aiuti", la norma sul termovalorizzatore di Roma, per di più del tutto estranea in barba all’omogeneità che dovrebbero avere i decreti. Per M5s forse solo un pretesto, che aveva però una scadenza precisa; in un’ottica più orientata all’interesse generale, sarebbe stato più opportuno rinviarlo a ottobre in un dl da affiancare alla manovra, in modo da mettere in salvo anche lo stesso Bilancio, ora invece appeso alle urne. Così come è stato un errore non aver smentito subito i contenuti dell’intervista del Fatto al sociologo De Masi, in cui si riferiva che «Draghi ha chiesto a Grillo di rimuovere Conte dal M5s»: aver fatto passare 12 ore senza farlo ha alimentato l’idea che quella frase fosse vera e ha contribuito ad avvelenare il clima coi 5s. Ingenuità politiche, forse anche un po’ cercate da un premier che, dopo la partita del Colle, a molti era parso meno interessato a proseguire.(Eugenio Fatigante)
Matteo Salvini
In cerca di Palazzo Chigi ma fa da spalla a Conte
Il primo amore non si scorda mai. Anzi in questo caso i primi amori. Che sia stato un atto consapevole o meno, sta di fatto che Matteo Salvini segue questa specie di duplice richiamo della foresta e d’un tratto torna al "primo amore" Papeete e al "primo amore" di questa ondivaga legislatura, cioè l’"intesa" con il M5s. La mossa che mercoledì ha portato la Lega a non votare la fiducia al governo Draghi (che pure, con altre forze politiche, aveva contribuito a far nascere) ha ricordato a molti osservatori la sortita del 2019, quando dal famoso locale della riviera romagnola il leader del Carroccio decretò la fine di un altro esecutivo: quello che lo vedeva alleato dell’allora premier Giuseppe Conte. E d’altra parte, quasi in una sorta di paradossale nemesi, proprio al fianco di quest’ultimo si è ritrovato, sia pure con motivazioni diverse, all’atto di staccare la spina alla compagine governativa guidata dall’ex governatore della Bce. In fondo non c’è da stupirsene. Il trasformismo è la vera felpa che Salvini non ha mai smesso: oggi governista, domani oppositore, una volta moderato, un altro giorno oltranzista. L’esempio tipico è quello che nel 2018 lo portò a sfilarsi dalla coalizione di centrodestra per fare il governo con gli "odiati" 5stelle. Ma a proposito di stelle, in tante giravolte, l’astro polare che il leader leghista ha sempre seguito è quello che, sul sentiero dei sondaggi, punta verso palazzo Chigi. Sarà questa la volta buona o anche dopo il 25 settembre arriverà secondo? (Mimmo Muolo)
Giuseppe Conte
Schiacciato dall'ala dura punta tutto sulla popolarità
Non cercava il voto anticipato, Giuseppe Conte. Cercava uno spazio politico diverso, all’opposizione, per recuperare un pezzetto di voto "delle origini" e provare a mettere la bandiera pentastellata su alcune sensibilità emerse negli ultimi mesi: la "voglia di pace" del Paese e la diffidenza verso l’invio delle armi, la richiesta di deficit per interventi più forti contro il carovita, la difesa "uno contro tutti" di provvedimenti-simbolo come il Reddito di cittadinanza e il Superbonus 110%. Provando, al contempo, a restare nel fronte progressista che da mesi stava disegnando insieme a Enrico Letta.
Il centrodestra di governo però ha strappato il suo progetto e, ottenendo le elezioni anticipate, lo ha messo ulteriormente in difficoltà. Il rapporto con il Pd è irrigidito se non compromesso. A due mesi dal voto, poi, M5s non ha ancora risolto il nodo delle deroghe alla regola dei due mandati, che Conte vorrebbe e che invece Grillo osteggia. Inoltre, la crisi di governo non è piaciuta a pezzi da novanta del Movimento. Nuove scissioni sono all’orizzonte, mentre gli stessi "ortodossi" che hanno spinto l’ex premier sulla linea dura guardano con crescente interesse alle mosse di Di Battista.
L’avvocato del popolo, però, si è convinto a fare di necessità virtù: la sua convinzione è che in campagna elettorale l’arma della popolarità personale riuscirà a sopperire almeno in parte ai problemi e alle fatiche del Movimento. (Marco Iasevoli)
Enrico Letta
Perso il campo largo, prende in mano l'agenda del premier
Il "suo" Partito democratico è rimasto solo, tra le forze politiche a due cifre nei sondaggi, a votare la fiducia a Mario Draghi. Una solitudine sulla quale ora il segretario Enrico Letta sta provando a costruire in fretta e furia un progetto diverso da quello pensato sino a pochi giorni fa. Il "campo largo" con M5s è finito. Il leader dem ha provato sino all’ultimo secondo a tenere dentro Conte, persino a concordare faticose vie di mezzo, con una sorta di "scissione pilotata" dei governisti 5s. Nulla da fare, a Letta non è rimasto altro che accompagnare il processo sino all’ultimo atto, per poi trarne le conseguenze.
Il colpo è duro, mesi di lavoro in fumo. Lo schema che ha portato la vittoria in diverse città va rivisto. Scatta così il piano B: farsi primi eredi dell’agenda-Draghi, forti della prova di lealtà fornita in Parlamento. Ma se la prima parte del piano è chiara - evidenziare lo iato tra chi è stato «responsabile» e chi invece si è dimostrato «inaffidabile» - la seconda è un’incognita. Il Pd riscoprirà la "vocazione maggioritaria", provando a ergersi a principale riferimento di chiunque non voglia far trionfare le destre? O si metterà con pazienza - ma con il rischio di sbattere contro un muro, come accaduto con i 5s - a cucire un rapporto con Calenda, Renzi, Di Maio, Toti e Brunetta? In aula la defezione 5s è stata trasformata, da problema, in finestra di opportunità. Ma la sfida di Letta è che a vedere un’opportunità siano, ora, gli elettori. (Marco Iasevoli)
Giorgia Meloni
Coerente all'opposizione incassa il voto anticipato
La coerenza, sosteneva Bacone, è il fondamento della virtù. Che si sia d’accordo o meno, non si può non riconoscere alla presidente di Fdi di aver tenuto, per tutta la legislatura, una posizione politica coerente, collocando il partito all’opposizione dei tre governi che si sono succeduti: gialloverde; giallorosso; e maggioranza multicolore a sostegno di Mario Draghi. "Molti nemici, molto onore", recita un detto a volte attribuito a Mussolini, ma non è la nostalgia di una certa epica militaresca la molla che ha spinto Fdi a collocarsi per quattro anni e mezzo nella trincea degli oppositori. Piuttosto è stata la convinzione che, nella confusione cromatica d’alleanze, gli elettori avrebbero premiato messaggi diretti e coerenti. Nei fatti, seppur dando sfogo a pulsioni sovraniste e di destra-destra e a slogan semplicistici (come il refrain sul «blocco navale» anti migranti), il pressing "esterno" sul centrodestra di governo e le sponde alla Lega (su battaglie contro le leggi pro cannabis e sullo Ius scholae) hanno più volte incrinato la maggioranza. Un’opposizione dura e senza sconti, dunque, ma che (fedele alla visione «patriottica» meloniana) sulle misure legate al Pnrr non ha negato il sostegno al governo. A giudicare dai sondaggi, la linea pare aver pagato: Fdi ha scavalcato la Lega, sfiorando il 24%. E ora le urne invocate da lady Giorgia si avvicinano, in una competizione interna con Salvini per la leadership che potrebbe portarla fino a Palazzo Chigi. (Vincenzo R. Spagnolo)
Silvio Berlusconi
L'atto imprevedibile del Cav sempre in scena
C'è poco da fare: senza scomodare il famoso aneddoto di Enzo Biagi su Silvio pronto a fare anche l’annunciatrice, Berlusconi sarebbe disposto a tutto pur di restare al centro della scena. È andata così anche stavolta, con una mossa parsa ai più incomprensibile: il Cavaliere, che si picca di essere un protagonista del Ppe europeo, in prima fila nel "liquidare" l’ex banchiere che molto si è speso per l’Europa (anche se ieri il Ppe Weber ha "benedetto" la mossa). Chissà se in questa scelta così dirompente ma voluta, a costo di squassare la sua creatura - Forza Italia -, abbia pesato un po’ anche una sorta di vendetta a posteriori per quella "manina" con cui proprio Draghi cofirmò, assieme all’allora presidente della Bce Trichet, la lettera spedita il 5 agosto 2011 che avviò di fatto la caduta rovinosa del governo Berlusconi uscito trionfante dalle elezioni del 2008, ma poi avvitatosi nel girone infernale dello spread. Berlusconi non è mai stato un uomo di rottura, eppure stavolta si è fatto trascinare sulle posizioni più estremiste (quelle dell’ala forzista più vicina a Salvini), contento anche della ritrovata centralità col suo ruolo da anfitrione per le riunioni a Villa Grande. Non ascolta il fido Gianni Letta e arriva a negarsi al telefono, con poco stile, a Draghi stesso. Come un Crono che divora i suoi figli, per fare un piacere a Giorgia Meloni ha finito con l’allontanare da sé anche la "prediletta" Gelmini. Come sempre spietato davanti al business, anche in politica. (Eugenio Fatigante)