lunedì 30 agosto 2021
La donna e il bambino, che è nato nel Bresciano e ha appena un anno, hanno atteso tre giorni nella calca dell’aeroporto: «Sono scappati poco prima dell’attentato. Aiutateci»
"Mia moglie e mio figlio nell'inferno". Chi non è salito sull'ultimo aereo
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«Salvate mia moglie. Riportatela in Italia. Ha cinque figli che l’aspettano, qui a Odolo, in Valle Sabbia. E salvate il nostro ultimo bambino, il sesto. È nato in Italia. È italiano. È bresciano. Non può restare in Afghanistan. Io, afghano, per dieci anni ho lavorato per la Nato. Per l’Occidente. Per l’Italia. Ho lavorato con voi. E per questo mi sono visto ammazzare due fratelli. E ho dovuto lasciare la mia terra, per non fare la stessa fine. Il governo italiano non può abbandonarci. Non può. Non deve». L’angoscia, la disperazione, il dolore che salgono giorno dopo giorno, ora dopo ora, come un’acqua oscura e raggelante, invece di spezzare la voce di Ataullah Salozai, sembrano indurirla. Farla come di pietra. E farsi pioggia di sassi le parole del suo racconto.

Ataullah è un rifugiato politico. In Italia dal 2015. La sua è una storia di speranza e di rinascita che, sul punto di compiersi in pienezza, si è ribaltata in beffa atroce, crudelissima. Storia di umili, di inermi, schiacciati dalle scelte dei potenti e dei violenti. Storia che va narrata fin dal principio.

Ataullah Salozai, che oggi ha 36 anni, ha servito il suo Paese lavorando con la Nato. «Per dieci anni, dal 2005 al 2015. Guidavo i camion che portavano fino alle sedi dei contingenti i materiali arrivati negli aeroporti. Ho girato tutto l’Afghanistan, con due miei fratelli, anche loro al servizio della Nato», racconta il rifugiato.

Ha pure sventato un probabile attentato, rifiutandosi di portare in uno scalo sotto controllo Nato un camion carico di esplosivo. Quanto bastò a farlo finire nella lista nera dei taleban, lui e i suoi familiari. Un giorno gli fecero ritrovare davanti a casa i cadaveri decapitati di due fratelli più giovani. Avevano 14 e 16 anni. Per Ataullah, una sola salvezza: lasciare l’Afghanistan.

Inizia così il viaggio che lo porta in Italia, dove otterrà asilo. È il 2015. Viene accolto a Rezzato, nel Bresciano. Comune e associazioni ne accompagnano il cammino di integrazione. Il passo successivo: Odolo. Dove trova casa e lavoro, in fabbrica. E un datore di lavoro, Franco Pe, che gli fa da amico e da padre. Il passo successivo: portare in Italia la moglie e i cinque figli rimasti in Afghanistan. Ci riesce nel 2018. E nel maggio del 2020, la nascita del sesto figlio: a Gavardo, sempre in terra bresciana.

Nei mesi scorsi, la decisione fatale: «Portare in Afghanistan l’ultimo nato per farlo conoscere ai nostri familiari». Così, il 17 luglio, la moglie, il piccolo e un cugino di Ataullah, che vive a Odolo e lavora nella stessa azienda, intraprendono il viaggio. «La situazione era serena, nessuno immaginava che tutto sarebbe crollato all’improvviso». Al degenerare della situazione, «abbiamo cercato di anticipare il loro rientro in Italia. Ma non c’era posto prima del 31 agosto».

La situazione precipita. L’Afghanistan è dei taleban. E per la moglie di Ataullah – moglie di un collaboratore degli occidentali – e per due fratelli del rifugiato – pure loro in passato in servizio con la Nato – iniziano giorni da incubo. «Chiusi in casa, per non essere scoperti, vivendo nel terrore della vendetta».

A Brescia inizia la mobilitazione. Franco Pe si fa in quattro per allacciare contatti con le autorità italiane perché i familiari di Ataullah non vengano abbandonati al loro destino. La comunità di Odolo, con il sindaco Franco Cassetti, si stringe al rifugiato. Che, finite le ferie, è dovuto tornare al lavoro. Ma non mancano amici e volontari ad aiutare, a occuparsi dei cinque figli. Anche a Rezzato c’è chi si mobilita: associazioni che avevano affiancato Ataullah, come "Nonsolonoi", il gruppo consiliare di "Rezzato democratica".

Il presidente della Provincia di Brescia, Samuele Alghisi, il 21 agosto scrive all’Unità di crisi della Farnesina sollecitando un «urgente intervento» a favore della moglie, del bambino, del cugino e dei due fratelli di Ataullah. Il 24 agosto una lettera con identici destinatario e richiesta viene inviata dal sindaco di Rezzato, Giovanni Ventura. Solidarietà bipartisan: Alghisi è del Pd, Ventura della Lega.

Ebbene: «Vengono contattati dall’Unità di crisi della Farnesina», riprende a narrare Ataullah. I cinque da portare in Italia cercano in ogni modo di raggiungere l’aeroporto di Kabul. E ci riescono.

«Ma, bloccati nella folla, sono rimasti là fuori tre notti e due giorni con i loro documenti, sperando di poter essere salvati dai militari italiani. Giovedì scorso la folla in preda al panico li travolge, mia moglie e il bambino cadono nel canale vicino all’aeroporto, rischiano di annegare. Quindi tutti insieme, contusi, feriti, tornano a casa. In quel punto, un’ora dopo, forse due, accade l’attentato. Potevano morire. Non è avvenuto. Ma ora sono di nuovo chiusi in casa, terrorizzati. L’ultimo aereo per l’Italia è partito senza di loro. Non sappiamo più cosa fare».

Attendere i corridoi umanitari o la ripresa dei voli civili? Rientrare in Italia attraverso un Paese confinante all’Afghanistan? La voce di Ataullah torna a farsi dura. «Non ho mai provato un dolore così grande in vita mia. Abbiamo lavorato per voi per dieci anni. L’Italia non può abbandonarci. Ma ora... mi scusi, devo preparare la cena per i miei figli». No, l’Italia non può ancora permettersi di dire "missione compiuta", finché ci sono in Afghanistan persone che rischiano di pagare per noi.

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