Alcune delle 350 famiglie che hanno aderito al progetto di Caritas “Apri” accogliendo rifugiati e richiedenti asilo nella loro vita
In maglietta rossa dal Papa all’Angelus per testimoniare la buona integrazione dei rifugiati. La maglia è quella del progetto “Apri” della Caritas italiana, acronimo che richiama i quattro verbi del Papa riferiti ai migranti (accogliere, proteggere, promuovere, integrare) pronunciati i nel gennaio 2018 per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato.
Questa domenica mattina, proprio in occasione della Giornata, una delegazione delle famiglie tutor e delle comunità parrocchiali coinvolti nel progetto marceranno in rosso da Castel Sant’Angelo a piazza San Pietro. La marcia dell’accoglienza, organizzata dall’organismo pastorale della Cei con la collaborazione del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, metterà a confronto le realtà coinvolte nel progetto che è la prosecuzione di “Protetto. Rifugiato a casa mia”. «Si tratta – spiega la coordinatrice Luciana Forlino – di una iniziativa nazionale avviata in piena pandemia, quando diverse Caritas diocesane segnalarono che dopo i decreti sicurezza di Salvini molti rifugiati rischiavano di uscire dalle comunità e ritrovarsi in mezzo alla strada».
Consiste in forme di accoglienza, anche se non in casa, per sostenere l’orientamento, finanziare gli studi, la partecipazioni a corsi di lingua o formazione professionale. Finora sono 623 le persone accolte, di cui 186 minori, le diocesi coinvolte circa 70, 100 le parrocchie, oltre 60 gli operatori e 350 le famiglie tutor volontarie. «Mettiamo al centro la comunità – aggiunge Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione della Caritas italiana –, intesa come base vitale e sistema di relazioni anche informali in grado di sostenere il processo di inclusione sociale e lavorativa delle persone. “Apri” ci ha dimostrato l’importanza della rete nell’accoglienza, crediamo che sia questo il futuro su cui costruire l’integrazione».
Tre famiglie tutor e altrettante famiglie di rifugiati sono lo specchio di storie incrociatesi nell’Italia sconvolta dal Covid. Il progetto “Apri” della Caritas ha rafforzato rapporti di supporto iniziati in precedenza, ha aiutato a non lasciare indietro nessuno facilitando l’integrazione di uomini, donne e bambini rifugiati.
“Apri” è semplice, nasce da un’emergenza generata sui territori da un decreto che prometteva sicurezza nel nome e invece generava insicurezza mettendo in mezzo alla strada rifugiati e richiedenti asilo che spesso, per mancanza di risorse e di conoscenze linguistiche o professionali, non erano ancora in grado di sostenersi autonomamente e di integrarsi. Grazie alla Caritas, alle diocesi e alle famiglie volontarie più di 600 persone hanno oggi una casa, lavorano e hanno imboccato il sentiero che porta alla integrazione. Come a Sant’Agata dei Goti, provincia di Benevento, piccolo centro dell’entroterra campano che si sta spopolando. Qui Simona e e Giacomo Barone nell’ottobre 2020 hanno accolto la proposta della Caritas diocesana di Cerreto, Sant’Agata e Telese di aiutare Raisul, un ragazzo 23 enne del Bangladesh con “Apri”, un ragazzo che a 12 anni si è lasciato alle spalle la miseria e ci ha messo sette anni a venire in Italia. Ha vissuto in India, In Grecia. Poi è stato respinto e ha comunque raggiunto l’Italia ancora da minore non accompagnato. Lui viveva già in paese e lavorava. «Lo conoscevamo di vista – spiega Simona – e all’inizio eravamo titubanti per il Covid perché avevamo un figlio di sette anni in Dad. Poi ci siamo detti che ci avrebbe fatto piacere». Com’è andata? «Che Raisul è entrato a pieno titolo nelle nostre vite, lo aiutiamo e lo consigliamo quando ce lo chiede. È nata una amicizia profonda. Lui condivide un appartamento con un altro ragazzo egiziano. Gli abbiamo fatto da tramite con la Caritas. Ad esempio tramite “Apri” siamo riusciti a fargli prendere la patente e acquistare un portatile per studiare italiano e corsi online per entrare nel mondo della ristorazione professionale». Raisul sogna di diventare chef un giorno. «È un gran lavoratore, è riuscito a trovare lavoro. Doveva solo orientarsi in una società complessa. Poi sceglierà cosa fare della sua vita».
A Senigallia Simona Diambra, il marito e sua figlia Sofia, primo anno di Scienze umane, sono in prima linea accanto a Sara, 30 enne nigeriana, madre sola di Stephany, cinque anni. Mamma e figlia vivono in un centro di accoglienza, dove Simona le ha incontrate 4 anni fa grazie a una chat su WhatsApp di mamme della parrocchia che chiedeva aiuto per una mamma che doveva lavorare e non sapeva come fare con la figliai piccolissima. «Sua figlia – racconta Simona Diambra –, nata in Italia aveva otto mesi. Sara si è sempre data molto da fare. Ha preso la licenza media e lavorava. Con “Apri” abbiamo potuto aiutarla a iscriversi a un corso per operatori sociosanitari mentre lavora. Noi le teniamo Stephany, andiamo a prenderla a scuola la aiutiamo a fare i compiti. Siamo riusciti anche a iscriverla a un corso di danza». All’inizio Sara era diffidente, poi è nata la fiducia e una grande amicizia con i Diambra: «Con “Apri”, iniziato nel 2020, che ci è stato proposto dalla Caritas in parrocchia, il rapporto si è consolidato. D’estate la piccola è stata in un centro estivo e poi la comunità parrocchiale ci ha aiutato ad accoglierle. Ad esempio ci ha dato una grossa mano a trovarle lavoro negli alberghi. Oggi sono entrate in famiglia».
Dall’Afghanistan a Gemona, Enayat, 33 ani, è riuscito a farcela a portare in Italia la sua famiglia grazie alla rete che fa capo a Gianni Vidoni, professore di religione in un liceo e coordinatore della Caritas di zona. «Nel gennaio 2020 per nove mesi – spiega Vidoni – abbiamo seguito la famiglia di profughi afghani il cui padre era già arrivato qui 5 anni fa. Era un militare delle forze speciali, una volta congedatosi è tornata a casa, vicino a Jalalabad. Qui i talebani gli hanno preso i soldi e bruciato l’auto minacciandolo di morte. Si era sposato da poco, è dovuto fuggire. Un mese dopo sua moglie ha partorito la prima figlia». Enayat fugge in Turchia dove pensa di stabilirsi, invece viene arrestato. Riesce ad uscire a raggiungere l’Austria, che con il governo sovranista non riconosceva più l’asilo agli afghani e infine arriva in Friuli». A Gemona resta tre anni in un centro per rifugiati dove conosce Vidoni, volontario Caritas. La struttura è stata chiusa due anni e mezzo fa, ma ha lo status di rifugiato e con l’aiuto dei volontari trova un lavoro e una piccola casa. Nel gennaio 2020 reisce a d andare in Pakistan a prendere moglie e figlia. «“Apri” è partita con il lockdown. Nel frattempo è arrivata una seconda figlia e il progetto è servito per sostenere la moglie, molto più giovane e analfabeta, in gravidanza, e poi a insegnarle l’italiano. Abbiamo dato una mano a superare alcuni ostacoli burocratici e abbiamo acquistato un computer. La figlia maggiore ha potuto frequentare un corso estivo che non si potevano permettere e così la bambina ha avuto contatti con i suoi coetanei. Ora frequenta le elementari e quella esperienza l’ha aiutata a inserirsi». Tre storie di persone che grazie alla comunità messa in rete dal progetto sono state aiutate soprattutto a tornare padrone del proprio destino.