Il segretario reggente del Pd, Maurizio Martina (a sinistra) e Carlo Calenda in una foto d’archivio (Ansa/Lami)
Si può rinviare di una settimana, il 14 invece del 7. Ma l’Assemblea nazionale del Pd non è più procrastinabile. Il Partito democratico ha perso le politiche e a stretto giro 33 dei 76 comuni che amministrava. La sconfitta è troppo grande per non rimettersi in moto, dopo un «bagno di umiltà» e una scrollata dal torpore che sembra aver paralizzato i dem dal 4 marzo ad oggi. Il punto però, a parte l’inevitabile analisi delle cause che – dal referendum del 4 dicembre 2016 – hanno portato gli uomini di largo del Nazareno a una progressiva erosione dei consensi, è arrivare alle assise estive con le idee chiare. La scelta è tra due soluzioni: l’elezione immediata di Paolo Geniloni alla segreteria, per avere un nome che unisce e rimettersi in moto con largo anticipo rispetto alle europee del prossimo anno; la convocazione di un congresso a fine 2018, per eleggere un segretario con le primarie. In questo secondo caso per ora c’è solo il nome di Nicola Zingaretti, in rappresentanza della sinistra interna, mentre i renziani e le altre correnti sono in cerca di nomi rappresentativi.
Di fatto, però, non si può ripartire senza aver prima compreso cosa si è rotto nel rapporto di fiducia tra il Pd e gli elettori. Specie quelli di Toscana ed Emilia e di roccaforti storiche, dove il centrosinistra ha ceduto il passo dopo 70 anni e più. Cambiano colore Sondrio, Imperia, Massa, Pisa, Siena, Viterbo, Avellino. Ma dopo un primo turno che aveva segnato la sconfitta a Catania, Vicenza e Treviso. Solo ad Ancona il Pd riesce a far eleggere il sindaco. In altre tre città concorre alla vittoria di candidati civici, e non va oltre.
A largo del Nazareno il clima è da psicodramma e ancora non si riesce a trovare una lingua comune per raccontare e decifrare gli eventi. L’ex ministro Calenda (ultimo arrivato al Nazareno) chiede di «andare oltre il Pd», ma il reggente Martina non ci sta a liquidare il partito: «Abbiamo tanto da cambiare nei linguaggi e nelle idee ma non sono d’accordo sul superamento del Pd». Andrea Orlando pensa ad una «fase costituente». Ma «non prima di aver chiesto scusa», secondo Gianni Cuperlo. Matteo Orfini oltre il Pd vede «la destra» e niente altro «di buono», e teme una conta lacerante. Dario Franceschini preme perché non si perda altro tempo. Mentre i renziani allargano l’orizzonte per cercare le cause di una sconfitta non più ascrivibile a Renzi, dicono.
Insomma, con questa varietà di letture e soluzioni, l’ipotesi di una sfida nei gazebo delle primarie appare assai pericolosa. E allora nell’assemblea di luglio non sarà facile individuare personalità diverse dall’ex premier Gentiloni, per rimettere insieme i cocci. L’idea di Maurizio Martina di continuare a guidare il partito sembra perdere quota dopo i dati di queste amministrative. Tra le macerie delle zone rosse, però, resta in piedi il modello Lazio, dove il 4 marzo il governatore Zingaretti è riuscito nel bis e dove Esterino Montino ha tenuto a Fiumicino, mentre nella Capitale sembra partita la rimonta nei municipi. Lo schema è quello allargato alla sinistra di Leu e alle liste civiche, che puntano a recuperare il rapporto con la "società civile".
Proprio per ripartire dalle comunità locali, oggi il presidente del Lazio incontrerà 200 sindaci di quella che Zingaretti chiama l’"Alleanza del fare", una sorta di cartello di amministratori, in grado di competere da outsider alle primarie. Ma si tratterà di una delle proposte che arriveranno in assemblea. Da parte sua, Calenda insiste per una «segreteria costituente, ancora più di un triumvirato, dove io, Minniti, ma anche la Pinotti e ovviamente Gentiloni ci dobbiamo spendere ribattendo colpo su colpo e costruendo, sottolineando quello che non si sta facendo e quello che si dovrebbe fare. E allo stesso tempo va preparata per settembre una grande costituente anti sovranista».