venerdì 27 agosto 2021
Il religioso barnabita è rientrato mercoledì con 5 suore di Madre Teresa e 14 bambini disabili. "Non li avrei mai lasciati là", racconta ad Avvenire. "Preghiamo per la pace, ma l'attentato non aiuta"
L'arrivo in Italia di padre Scalese con i 14 bambini disabile e le suore di Madre Teresa

L'arrivo in Italia di padre Scalese con i 14 bambini disabile e le suore di Madre Teresa - Ansa

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Sette anni in Afghanistan e poi all’improvviso la partenza. «Tutto si è sviluppato in maniera così rapida che sono confuso». Padre Giovanni Scalese, missionario barnabita, è rientrato nel primo pomeriggio di mercoledì da Kabul, insieme con 5 suore di Madre Teresa e 14 bambini disabili. Ma è ancora comprensibilmente frastornato. E la notizia dell’attentato nei pressi dell’areporto, giunta pochi minuti del nostro colloquio, non lo aiuta certo. «È quello che più temevamo - dice - l’esplosione della violenza incontrollata. In questi giorni abbiamo pregato soprattutto perché non ci fossero vittime innocenti. La popolazione è già tanto provata».

Il religioso, che ha 66 anni ed è sacerdote dal 1981, ripensa ai suoi anni nella capitale afghana. «Il mio compito era quello di assistere pastoralmente i fedeli cattolici presenti in città. Naturalmente si trattava di cittadini stranieri, perché lì ogni attività religiosa rivolta agli afghani viene considerata proselitismo ed è severamente vietata. Tuttavia non bisogna pensare che per questo la Chiesa fosse totalmente assente. Sul fronte della carità c’erano diversi servizi, anche molto apprezzati dalla popolazione».

Proprio le suore Missionarie della Carità, l’ordine fondato da Madre Teresa di Calcutta, gestivano un orfanotrofio con i 14 piccoli disabili rientrati con loro mercoledì e assistevano 300 famiglie povere. La Pro Bambini di Kabul si occupava invece di una piccola scuola per bambini con un lieve ritardo mentale, per favorire il loro inserimento nella scuole statali. E poi c’erano i gesuiti del Jesuit Refugee Service. Come sotto altre latitudini la carità parla sempre un linguaggio comprensibile da tutti.

Padre Scalese racconta anche di paure e di speranze. Queste ultime accese dall’impegno quotidiano per sette anni accanto ai più poveri. Le prime scaturite soprattutto negli ultimi giorni, quando la situazione è precipitata e (fa notare il padre) «si è temuto concretamente di dover assistere a una guerra civile con tante vittime»; e poi nelle ore decisive del trasferimento in aeroporto. «Non è stato facile arrivarci - si limita a dire il religioso –, c’era un caos pazzesco, strade intasate e tanta gente, ma ce l’abbiamo fatta con l’aiuto di Dio. Io, certamente, senza le suore e i bambini mai sarei partito. Ero disposto a restare là». Determinante, riconosce il barnabita, è stato il lavoro del console Tommaso Claudi e dei suoi collaboratori. «Stanno facendo un lavoro sovrumano e dando prova di grande generosità. E noi non ci siamo mai sentiti soli».

Così come padre Giovanni si dichiara fin d’ora disponibile a ritornare. «Se un giorno saranno ristabilite le possibilità di essere nuovamente presenti e di riprendere il lavoro pastorale e quello sociale accanto ai più pover, perché no?! Adesso però possiamo e dobbiamo soprattutto pregare per la pace. Operativamente non possiamo fare altro».

Infine, alla domanda sulle sue intenzioni di preghiera per l’Afghanistan, padre Scalese risponde: «Prego che la situazione evolva in modo positivo, per il bene di tutti, e che non ci siano violenze, vendette e ritorsioni. Certo, l’attentato fuori dall’aeroporto non è un bel segnale.

Ieri intanto è continuato il ponte aereo. Complessivamente sono arrivati ieri a Fiumicino 702 afghani più altri 562 in serata, il che porta a 4.832 il totale dei cittadini afghani messi in sicurezza.

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