martedì 24 settembre 2024
Disumanità, sequestri e torture. I trafficanti sempre più attivi sulla rotta dei migranti in fuga dal Sudan verso il paese nordafricano. Un racconto che illumina una tragedia ormai dimenticata
undefined

undefined - undefined

COMMENTA E CONDIVIDI

Odissea 2024 d’oltremare, con tre immagini simbolo e una storia per raccontare le vite disperate dei migranti subsahariani. Venduti come merce dai trafficanti, catturati in mare, braccati, torturati e nascosti per sopravvivere nel caos della Libia.
La prima foto è una jeep rovesciata nel Sahara durante il viaggio con i trafficanti.

Poi quella di un gruppo seduto al porto, in pieno sole, la pelle corrosa dal sale dopo essere scampati a un naufragio. Riportati a Tripoli dalla cosiddetta guardia costiera libica che, senza passare dall’ospedale, li porterà in prigione,

Infine, un altro gruppo in un centro di detenzione tripolino. Donne e uomini catturati dalle milizie durante un rastrellamento, le periodiche cacce al nero che portano a detenzioni arbitrarie e torture fino al pagamento di un riscatto.

Secondo l’Onu in Libia sono 725mila i migranti registrati ufficialmente, ma il governo di Tripoli ha dichiarato che potrebbero essere circa 2,5 milioni con gli irregolari.

La storia è quella di Solomon, 28 anni, profugo eritreo della nuova ondata in fuga dal Sudan, dove anche prima della guerra civile i profughi venivano sequestrati dalle forze di supporto rapido e dalla polizia e liberati dietro pagamento di riscatti sempre più alti.

«Ho lasciato l'Eritrea nel 2017 - racconta - per fuggire dal servizio militare a vita. Sono entrato in Sudan e ho chiesto asilo, dopo circa un anno sono riuscito ad arrivare a Khartum. Lavoravo come cuoco in un ristorante. Dal 2022 è iniziata una forte pressione su eritrei ed etiopi. Mentre ero al lavoro, sono stato catturato dalle forze di sicurezza della capitale a marzo. Mi hanno costretto a pagare mille dollari per uscire. Ho perso il lavoro, non riuscivo più a uscire per paura di essere preso. Sono stato arrestato di nuovo nella casa dove vivevo con mia moglie e mio figlio di pochi mesi. Il prezzo della libertà era salito a 1.200 dollari. Eravamo centinaia di eritrei ed etiopi, massacrati e ammassati in un posto stretto e lurido. Amici e parenti hanno fatto una colletta per liberarmi. Ero distrutto, spaventato e, pur sapendo che la Libia era un Paese pericoloso, ho deciso di andarci a cercare fortuna con altri eritrei. Non avevo scelta».

L’odissea di Solomon inizia nel Sahara, dove molti migranti spariscono per sempre. «Il 6 maggio 2022 - prosegue - siamo partiti con un trafficante eritreo, Amaniel soprannominato Ema, ma dopo un giorno abbiamo avuto un incidente e siamo stati rapiti da altri ciadiani che ci hanno portato a Kufra (la città oasi prima tappa libica sulla rotta migratoria dal Sudan, ndr ), vendendoci a due trafficanti. Il libico Abu Salah e il sudanese Hassen - che ci hanno chiesto 8mila dollari a testa per proseguire. I primi giorni ci davano cibo e acqua, poi hanno iniziato a picchiarci. Abbiamo visto molte persone che erano là prima di noi, erano dei cadaveri, avevano subito molte atrocità. Avevo paura, quando mi hanno dato il telefono per chiamare la mia famiglia ho chiesto aiuto urlando. Mio padre ha venduto tutto quello che aveva per liberarmi. I trafficanti mi hanno mandato ad Al Khums, sulla costa».

La storia di Solomon ricorda che in Libia l’immigrazione è diventata una voce importante dell’economia perché genera due ingenti flussi di denaro. Quello pagato dai migranti per partire verso l’Ue o venire liberati dalle prigioni dove guardie e trafficanti sono spesso collusi tra loro e con la cosiddetta guardia costiera libica, a sua volta stipendiata per catturarli in mare dai due governi libici con i milioni sborsati da Bruxelles e Roma per fermare le partenze.

«Ad Al Khums un altro trafficante eritreo ci ha chiesto 3mila dollari a testa per raggiungere l’Italia dal mare. Di nuovo ho chiesto aiuto ad amici e parenti e dopo tre mesi avevo la somma. Finalmente è arrivata nell’ottobre 2022 la notte della partenza. Con altre 70 persone siamo saliti su un gommone, ma dopo qualche ora di viaggio la guardia costiera libica ci ha intercettati e spediti nella prigione di Ain Zara. Sono stato torturato, ho sofferto la fame e la sete finché, dopo circa cinque mesi, ho raccolto 700 dollari per corrompere le guardie che mi hanno lasciato andare. Sono rimasto a Tripoli a vivere con altri eritrei e il 6 aprile 2023 sono andato all’ufficio dell’Unchr per registrarmi. Un giorno un amico mi ha chiesto se volevo partire in barca al suo posto perché lui era stato chiamato dall’Onu per venire evacuato in Ruanda. Ho accettato e una notte del giugno 2023 sono partito con 20 persone, tra cui due donne, una incinta. Siamo partiti da Zawiya, il trafficante si chiamava Abdu».

Ma il gommone era troppo piccolo. «Dopo circa 10 ore abbiamo iniziato a imbarcare acqua e piano piano siamo finiti in mare. Urlavamo e piangevamo, cercavamo qualcosa cui aggrapparci. Ho trovato una tanica di benzina e sono rimasto molte ore in acqua. Siamo sopravvissuti in sette, anche la donna incinta è morta. Ci hanno salvato alcuni pescatori che, però, ci hanno consegnato alla guardia costiera libica che ci ha portato nella prigione tripolina di Abu Selim. Ho pagato 1.200 dollari per uscire e tornare nella casa dove vivevo, ma il mese scorso c'è stato un rastrellamento notturno e la polizia ci ha cacciati nella prigione di Tarika Sika, dove ho pagato 1.000 dollari per uscire. Non posso uscire, sto vivendo nella paura e nell'ansia. Non voglio andare in mare, ma non so come uscire da questo inferno. L’unica speranza e che l’Unhcr faccia qualcosa per aiutarmi».

E la moglie e il figlio neonato? «Con lo scoppio della guerra civile in Sudan sono fuggiti in Etiopia, ad Addis Abeba. Spero di riuscire un giorno a rivederli».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: