domenica 25 agosto 2019
Il giorno del ricordo e del dolore, ieri. Ad Amatrice e in Centro Italia, tre anni dopo. Nel quale «chiediamo perdono, per le parole vuote, false e prive di significato che in questi tre anni abbiamo
Foto Ansa

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Il giorno del ricordo e del dolore, ieri. Ad Amatrice e in Centro Italia, tre anni dopo. Nel quale «chiediamo perdono, per le parole vuote, false e prive di significato che in questi tre anni abbiamo detto e ascoltato», ha detto chiaro monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti, nell’omelia della Messa di commemorazione della tragedia del terremoto, il 24 agosto 2016. Parole seguite da un fragoroso applauso dell’intero Palazzetto dello sport di Amatrice.

E, ancora, «viviamo un doppio sentimento. Dolore per chi non c’è più, una ferita che non si rimargina» e «disincanto per la ricostruzione, che si immaginava essere più facile, anche sulla base delle parole conclamate. Accanto al senso di nostalgia, si aggiunge una situazione di totale stallo». La ricostruzione post terremoto è una delle incompiute alle quali il prossimo governo dovrebbe mettere più urgentemente mano. Insieme a molto altro. Perché i dolori e ricordi, che nel nostro Paese purtroppo abbondano, non sembrano avere via via cambiato molto la situazione, tra rischio sismico e idrogeologico, mancate manutenzioni anche appena ordinarie della rete infrastrutturale, già scarsa e spesso obsoleta.

Basti pensare, terremoti e alluvioni a parte e per rimanere solo a Genova e agli ultimissimi anni, al Ponte Morandi o alla Gronda. Andiamo per ordine. Il nostro è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo «per la frequenza dei terremoti che hanno storicamente interessato il suo territorio » e «per l’intensità che alcuni hanno raggiunto», con «un impatto sociale ed economico rilevante », annota il Dipartimento di Protezione civile.

E «la sismicità più elevata si concentra nella parte centromeridionale della penisola, lungo la dorsale appenninica, in Calabria e Sicilia e alcune aree settentrionali, come il Friuli, parte del Veneto e la Liguria occidentale». In realtà da noi nemmeno si spende poco per le infrastrutture stradali, siamo al secondo posto tra i Paesi sviluppati (dietro la Norvegia), con 15mila euro di investimenti in manutenzione per chilometro. Il punto è come questi soldi vengono spesi, visto che le nostre stesse infrastrutture stradali certo non risultano fra le più sicure. Tant’è che la percentuale di Pil usata per infrastrutture stradali (non manutenzione) è fra le più basse d’Europa.

Difficile essere precisi, ma stando ad alcune stime, servirebbe una cifra intorno ai quaranta miliardi di euro per sistemare l’intera rete stradale italiana, cioè più o meno cinque o sei volte gli investimenti attuali. Non solo rischio sismico e guai infrastrutturali, si accennava. In Italia è a rischio il 91% dei comuni (l’88% nel 2015) e più di 7 milioni di persone risiedono in queste aree ad alta vulnerabilità, racconta l’ultimo Rapporto Ispra sul “Dissesto idrogeologico in Italia” dello scorso anno. È aumentata la superficie potenzialmente soggetta a frane (+2,9% rispetto al 2015) e quella potenzialmente allagabile (+4%).

Complessivamente, il 16,6% del territorio nazionale è mappato nelle classi a maggiore pericolosità per frane e alluvioni. Ancora, quasi il 4% degli edifici italiani si trova in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata e più del 9% in zone alluvionabili. Le regioni a maggior rischio sono l’Emilia Romagna, la Toscana, la Campania, la Lombardia, il Veneto e la Liguria. Le industrie e i servizi posizionati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono quasi 83mila, con oltre 217mila addetti esposti a rischio. I dati Ispra individuano in aree franabili anche 38mila beni culturali, dei quali oltre 11mila ubicati in zone a pericolosità da frana elevata e molto elevata. Infine gli edifici. Stando a un rapporto di Unimpresa (associazione di piccole e medie imprese italiane) su dati fino al 2016, sarebbero più di 452mila gli immobili a rischio crollo nei Comuni italiani, quelli catastalmente classificati come parzialmente e interamente inutilizzabili. Per sistemarli tutti, occorrerebbero almeno cento miliardi di euro.

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