Il Palazzo della Consulta sede della Corte Costituzionale - Ansa
Anzitutto, la vita. Intervenendo nuovamente sui confini di non punibilità dell’aiuto al suicidio, la Corte costituzionale ha ribadito con energia un punto fermo della sua giurisprudenza recente in materia (e con questa sentenza 135/2024 siamo ormai al quarto pronunciamento in 5 anni, tanto che i giudici più volte citano sé stessi), ovvero che non esiste né è invocabile un “diritto di morire” nel nostro ordinamento, al centro del quale c’è invece la «tutela della vita umana», un «bene che “si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona”». Infatti «la giurisprudenza di questa Corte riconduce la vita all’area dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dall’articolo 2 della Costituzione».
Dato per inamovibile il principio, per la Consulta chiamata da un giudice di Firenze a pronunciarsi nuovamente sui requisiti per accedere al suicidio assistito senza conseguenze penali – e sempre con Marco Cappato al centro di un caso giudiziario – resta valido quanto stabilito nella sentenza “dj Fabo”, in attesa che il Parlamento la traduca in una norma precisa: «Nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia – fa sapere la Corte – i requisiti per l’accesso al suicidio assistito restano quelli stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019, compresa la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, il cui significato deve però essere correttamente interpretato in conformità alla ratio sottostante a quella sentenza». I requisiti che la Corte ribadisce sono i quattro già ampiamente noti: «Irreversibilità della patologia, presenza di sofferenze fisiche o psicologiche che il paziente reputa intollerabili, dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli». Inevitabile il verdetto di non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal tribunale fiorentino sul requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, che non sarebbero stati determinanti e che invece restano essenziali tra i criteri per determinare i casi in cui l’aiuto alla morte volontaria non è punibile.
Ma è proprio sulla natura di questi che la Corte ha offerto una nuova e più ampia interpretazione (estesa oltre i confini del recente parere del Comitato nazionale per la Bioetica), basata sul «riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. La nozione include quindi anche procedure – quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o “caregivers” che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo», una precisazione dirimente. Dunque per i giudici è “trattamento di sostegno vitale” non qualunque terapia o intervento su un paziente, come chiedono i fautori dell’eutanasia, ma quelli senza i quali la morte sopravviene in breve tempo: «Non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali – nota la Corte –. Dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza n. 242 del 2019». Resta comunque «escluso che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale determini irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti», come invece teorizzato dai radicali dell’Associazione Coscioni. «Ogni paziente – ricorda la Consulta – ha un diritto costituzionale di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza», sempre avendo chiaro però che «dal punto di vista dell’ordinamento ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge». E se «il compito di individuare il punto di equilibrio più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana spetta primariamente al legislatore, nell’ambito della cornice precisata dalla Corte», i giudici costituzionali chiamano in causa – nel secondo punto parzialmente innovativo di questa sentenza rispetto alle precedenti – quelli ordinari nel dirimere i casi sui quali si dovesse consumare un contenzioso: «La nozione di trattamenti di sostegno vitale – spiega la Corte – deve essere interpretata dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio della sentenza». In particolare (dettaglio non a caso enfatizzato da chi spinge sulla china eutanasica) «l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura, da parte delle strutture del servizio sanitario pubblico, ben potrà essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie». Un’apertura alla valutazione giudiziaria di delicatissimi casi clinici sui quali il professionista competente dovrebbe essere il medico. Quanto poi all’«esecuzione dell’aiuto al suicidio», come viene definita con terminologia non felicissima, la Corte ribadisce che «condizioni» e «modalità» siano «verificate da strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale (...) previo parere del comitato etico territorialmente competente».
Espresso infine il «forte auspicio che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai princìpi fissati dalla propria precedente sentenza, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi oggi richiamati», la Consulta richiama «lo stringente appello, già formulato in precedenti occasioni, affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza». A ben vedere, il primo punto fermo da richiamare se si ha a cuore il diritto alla vita come principio che – come scrive la Corte citando un suo pronunciamento del 1997 – appartiene «all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».