venerdì 6 dicembre 2019
Viaggio nella città veneta che fino all’anno scorso deteneva il triste record di morti per droga La sfida delle istituzioni e delle comunità: educatori nei bar e fuori da scuola. «Ma serve di più»
Il sottopasso della stazione di Mestre, uno dei luoghi di spaccio della città

Il sottopasso della stazione di Mestre, uno dei luoghi di spaccio della città

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Il lungo sballo del weekend inizia venerdì pomeriggio nel sottopasso della stazione di Mestre, direzione Marghera. I gruppetti di ragazzini fanno avanti indietro. «Il fumo lo dividiamo, però tu devi smetterla di fare il furbo», alza la voce lei. Avrà sì e no 15 anni, i capelli corti e gli occhiali. Ed è già su di giri. La discussione viene interrotta dal campanello della bicicletta, che schizza alla velocità della luce: lo spacciatore non ha niente addosso, si ferma, consegna, riparte. La scena si ripete: stavolta le ragazze sono due, a braccetto. Il pusher arriva sempre su due ruote, lungo la pista ciclabile che corre parallela al passaggio pedonale. Lo salutano per nome, lui si ferma, sorride, consegna, se ne va.

Mentre il mondo guarda Venezia sprofondare e riemergere dall’acqua, la droga di qua dalla Laguna è una ferita che si riapre, e si riapre ancora, in silenzio. Ai primi di ottobre tre casi di overdose in cinque giorni hanno fatto temere d’esser tornati al 2018, quando Mestre deteneva il tragico primato di 21 morti di droga in un anno e l’eroina gialla impazzava a destra e a manca senza controllo. Otto volte più potente di quella normale, e venduta a bassissimo costo per sbaragliare la concorrenza. «Da allora molto è stato fatto» spiega l’assessore alle Politiche sociali Simone Venturini, che lo slogan di “capitale delle overdose” non vuole più sentirlo, complice il nuovo triste primato della cugina Vicenza. «A cominciare dal maxi-blitz in stazione di un anno fa, e nella tristemente famosa via Piave».

Dice il vero: lì le frotte di spacciatori affiliati alla mafia nigeriana oggi sono scomparse, il parchetto un tempo arena dello spaccio è presidiato da camionette dell’esercito e volanti della polizia. «E sull’eroina gialla abbiamo imparato tutto – continua Venturini –, le nostre unità di strada hanno fatto un’informazione capillare, mettendo in guardia sui rischi, sul come riconoscerla».Parola d’ordine, arginare i danni. Un po’ come col naloxone, l’antidoto all’eroina distribuito in quantità di notte per salvare la vita a chi si fa, o a chi potrebbe farsi. «Se non possiamo evitare che accada tra i ragazzi – taglia corto Alberto Favaretto, responsabile dei servizi di Prossimità del Comune di Venezia – almeno cerchiamo di accompagnarli, per evitare che si distruggano». E la riduzione del danno è l’obiettivo raggiunto, nell’impegno di anni.

Il male dei più giovani, però, resta. È il buco nero dentro cui i servizi sociali precipitano, senza rete. A guardarlo in faccia c’è Angelo Benvegnù, presidente del Coges don Lorenzo Milani e vicepresidente della Federazione italiana delle comunità terapeutiche (Fict). Non era più facile negli anni Ottanta, quando don Franco De Pieri – il prete di strada che per primo s’è occupato dei tossicodipendenti a Mestre – lavorava a testa bassa per recuperare le giovani generazioni: «Continuare quella missione è la sfida che abbiamo raccolto e declinato in questo tempo complicatissimo, in cui l’età dell’abuso di sostanze è scesa drammaticamente. E appena prima della droga c’è l’alcol a inghiottire i nostri adolescenti».

L’emergenza a Mestre e Venezia è un fiume in piena, con numeri da capogiro in linea col già drammatico trend regionale: il consumo di alcolici coinvolge il 65% della popolazione, il 26% dei giovani ammette di praticare il binge drinking (il consumo smodato concentrato in una serata) con un aumento del 6% negli ultimi 4 anni nella fascia d’età 11-15 anni. Delle 4.500 persone che in un anno si rivolgono al Serd locale articolato nelle sue cinque sedi (12 volte tanto il numero che dovrebbe essere gestito da un singolo servizio), la maggior parte lo fanno proprio per dipendenza da sostanze (2.493 nel 2018) e alcol (1.093) o, più spesso, tutte e due. Di più: 1 su 4 ha meno di 26 anni, il 15% fra questi è minorenne, la metà arriva lì dopo aver compiuto reati e perché segnalato dall’autorità, piuttosto che accompagnato dalla famiglia.

Un deserto educativo dentro cui muoversi è impresa titanica «soprattutto coi mezzi che abbiamo – confessa Alberto Manzoni, operatore del Serd di Venezia –. Una legge vecchia, risorse umane insufficienti, centri pensati per accogliere le situazioni più disparate senza alcuna specificità, dall’ottantenne che brucia la pensione alle slot al tossicomane in cerca di metadone, fino al ragazzo finito in coma etilico il sabato sera ». E là fuori, oltre il Serd, il muro delle liste d’attesa che intasano le comunità di recupero (3 mesi a Mestre), con una sola struttura per minori in tutta la Regione – a Conegliano – che sembra un miraggio e le semplici comunità educative zeppe di ragazzi con dipendenze che non sono attrezzate per curare. Le ricette del passato non bastano più. Verrebbe da arrendersi, «e invece arrendersi non si può – continua Benvegnù –, in ballo c’è una generazione».

Il Coges – prima che nella comunità di recupero Soranzo, un centro all’avanguardia che raccoglie tre distinte strutture – ha deciso di ripartire dai più piccoli fuori da scuola, nei parchi e sui tavolini dei bar con gli educatori di strada: giovani psicologi preparati al confronto senza giudizio come Tiziana, che ai ragazzi si mescola quasi tutti i giorni. «Siamo punti intermedi tra l’emergenza e i servizi, il nostro ruolo è stare lì, fare domande, molto più spesso semplicemente ascoltare». Perché questi “bimbi sperduti” – con una media di 50 euro di paghetta per fine settimana – quando incontrano qualcuno che li ascolta «hanno molto da dire». Poi c’è lo spazio diurno nella struttura al centro di Mestre, a metà fra un oratorio e un centro ricreativo: «Tanti anni fa, quando è nato, l’abbiamo chiamato Nse, Non solo ecstasy – spiega Angelo –. Oggi l’emergenza delle pasticche è superata, siamo nel pieno di tutto il resto».

Anche degli psicofarmaci, che i ragazzi fanno a gara per mescolare a drink e cannabinoidi per vedere l’effetto che fa: «Il mercato delle ricette è fiorente – racconta ancora Tiziana –. Ci sono pusher anche per quelle». Si cercano cure, si cercano le famiglie soprattutto, «sempre portatrici di grande sofferenza ed impotenti, talvolta persino “colpevolizzanti” rispetto al servizio di cura» spiega Laura Suardi, del Serd di Dolo. Servizi e comunità e istituzioni: a Mestre si prova a lavorare tutti insieme, anche per colmare l’assenza dei genitori «che sono gli altri malati di questo tempo – aggiunge Benvegnù –. Solo che ancora non lo sanno».

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