Madina, 6 anni. Nazionalità afghana, è morta sulla rotta balcanica investita da un treno a fine novembre, dopo che la polizia croata l’aveva respinta illegalmente deportando lei e la sua famiglia alla frontiera serba
Madina, 6 anni. Nazionalità afghana e per questo già ai nostri occhi europei profuga di serie B. È morta sulla rotta balcanica investita da un treno a fine novembre, dopo che la polizia croata l’aveva respinta illegalmente deportando lei e la sua famiglia alla frontiera serba. I familiari a seguito di quella perdita immensa hanno deciso di fare un esposto al Tribunale europeo dei diritti umani sostenuti dai legali dell’associazione croata Are You Syrious e del centro per la protezione dei richiedenti asilo serbo, Apc.
La notizia della morte di Madina è arrivata soltanto di sfuggita sulla stampa; la foto della bimba riversa nel sangue, anziché fare il giro del mondo come quella del piccolo Aylan e provocare un mea culpa collettivo, è rimasta soltanto negli occhi, nel cuore e nella memoria degli smartphone degli operatori umanitari.
Come Madina, e senza nulla togliere a lei, ce ne sono state altre, troppe di tragedie, di morte e disperazione non raccontate sulla rotta balcanica: stando ai numeri ufficiali dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati 4.300 profughi sono ancora bloccati in Serbia, mentre solo nel 2017 in Grecia sono arrivate circa 30mila persone e altrettante sono ancora in attesa della cosiddetta ricollocazione in altri Stati dell’Ue. Ciononostante dal 2016, dopo la chiusura delle frontiere dei Paesi dell’Europa orientale e l’accordo tra Ue-Turchia che ha bloccato i sogni di migliaia di persone in cerca di un futuro europeo, di Balcani e migrazioni non si è parlato quasi più.
La conseguenza è stata aver creato un limbo di disperazione senza fine a cui soltanto gli aiuti umanitari cercano di mettere una pezza. L’associazione veronese One Bridge to Idomeni in un anno di vita ha lavorato nei campi di Sid e Obrenovac in Serbia e Kavala e Diavata in Grecia. «Abbiamo portato quello di cui c’era bisogno nei campi informali dove non ci sono operatori umanitari: ad esempio a Sid, al confine croato, dove in un capannone dismesso si ritrovano i profughi che vogliono tentare il 'game'. Dopo gli sgomberi dei campi non ufficiali, l’ultimo alle Barracks a Belgrado, ci siamo coordinati con le grandi Ong che hanno accesso ai campi governativi e abbiamo cercato di rivedere le nostre strategie, portando non solo cibo e vestiti, ma mettendo a disposizione anche le nostre competenze sul piano educativo e informativo», spiega Pietro Albi, vice presidente dell’associazione.
Dall’emergenza cibo e freddo si è passati così a ragionare in termini di sostegno psicologico ed educazione non formale, poiché fino a settembre 2017 i minori bloccati nei campi non potevano nemmeno frequentare le scuole in Serbia. Con un progetto pilota a Bogovadja, uno dei campi più piccoli in Serbia, Ipsia – la Ong delle Acli – in partnership con Caritas italiana e Caritas ambrosiana ha inaugurato a settembre 2017 il primo Social Cafè gestito da e per i richiedenti asilo. Uno spazio di aggregazione che offre attività formative ma anche educative, dai corsi di informatica a quelli di lingua. Uno spazio di espressione individuale, lontano dalle dinamiche alienanti di vita nel campo, fiorito anche grazie alle energie di tanti volontari italiani che hanno portato sostegno, dignità e un pizzico di leggerezza alle giornate delle persone bloccate lì da mesi. C’è chi ha insegnato il tedesco e l’inglese, chi ha proposto lezioni di karate o tornei di scacchi, chi ha permesso di comprare attrezzature sportive e materiali didattici per le persone del campo. In sintesi, l’educazione non formale è stata la base del progetto firmato Caritas-Ipsia, a cui da gennaio 2018 collaborano anche i volontari di One Bridge to Idomeni.
Ma ora cosa succederà? Oltre a una regia internazionale incapace di risolvere una crisi umanitaria latente, quello che manca a queste migliaia di persone con la vita in stand by è la prospettiva di futuro, la libertà di movimento e di azione. I profughi, quando tentano di andarsene dalla Serbia, usano l’espressione «I go game», «Vado a giocare»: con la mia vita, con quella dei miei figli, dei miei fratelli, delle mie sorelle, delle persone a me più care... E sono spinti da un’unica ragione: la speranza di migliorare le condizioni di vita, esattamente come avevano tentato di fare Madina e la sua famiglia.