Giorgia Meloni - Fotogramma
«Un altro scherzetto così e conoscerà la lista dei ministri dalla televisione...». È mattino quando Giorgia Meloni mette a verbale la sua linea di fronte all’imbarazzante audio di Silvio Berlusconi sulle «lettere dolcissime» con Vladimir Putin. La leader Fdi, parlando con i vertici di Fratelli d’Italia nel suo studio a Montecitorio, pensa di lanciare così un ultimatum al Cav. e anche ai dirigenti di Fi, sballottati tra la lealtà al capo e la volontà di far nascere il tanto agognato governo di centrodestra. Non sa ancora, Meloni, che esiste la “parte 2” di quell’audio, sapientemente messa in circolo nel pomeriggio, proprio quando la premier in pectore iniziava a pensare che la sua strategia del “basso profilo” stesse salvando capre e cavoli.
E invece... E invece l’arringa del Cav. durante la riunione di martedì dei deputati forzisti andava molto oltre la mozione degli affetti con l’«amico Putin». Era una vera e proprio contronarrazione dei fatti in Ucraina, con tanto di accuse a Zelensky. Quando sente la voce del Cav. proferire parole destinate ad animare i peggiori timori di Bruxelles e Washington, Meloni decide di partire con l’operazione «neutralizzazione». E fa lanciare una di quelle note-stampa informali per far paura all’alleato ostile: «Più sono inaffidabili, meno spazio avranno». Quelle del Cav. sono «parole preoccupanti» ma «il problema è soprattutto di Forza Italia».
Altro che “Vietnam” per il nascente governo, dicono i meloniani, piuttosto se Berlusconi continua così a uscirne balcanizzata sarà Forza Italia, costretta di qui a breve a scegliere da che parte stare (e in questo senso, il gruppo dei Moderati fatto nascere al Senato con l’aiuto di eletti di Fdi sembra l’esca perfetta). Insomma, parafrasando Meloni: occhio Silvio, che vado in aula con i ministri che dico io, spacco Fi e mi prendo comunque la maggioranza.
È una reazione che nasce nel solco di una disamina politica dello stato maggiore di Fdi: se il Cav. sta usando il lanciafiamme, è soprattutto per regolare una faida interna a Fi, è la valutazione preponderante. Ovvero: dal momento che non ha ottenuto un ministero per la lealista Licia Ronzulli, Berlusconi disseminerebbe mine per impedire l’approdo agli Esteri al suo numero due, Antonio Tajani, accusato dall’inner circle di Villa Grande di “collateralismo” con la leader Fdi.
Ma il caso-Berlusconi diventa così deflagrante e sovranazionale, ora dopo ora, minuto dopo minuto, che le veline incrociate iniziano a diventare insufficienti. Si fa una domanda, Meloni: cosa sta pensando il Colle? Come si pone di fronte a una coalizione che sale unita al Quirinale solo formalmente, portando avanti però diverse linee di politica estera con evidenti elementi di ambiguità verso Putin? E quali sarebbero le conseguenze di un nuovo show di Berlusconi a favore di telecamere mentre la premier in pectore prova a fare un discorso serio e rassicurante al Paese?
Gli sherpa che in questi giorni fanno la strada tra Montecitorio e Quirinale si mettono in azione, e capiscono che da parte del Colle resta la piena disponibilità a fare un governo in fretta e secondo il dettato costituzionale, ma serve che Meloni in persona metta ufficialmente la parola “fine” a un pericoloso balletto. Insomma, dalle “veline” occorre passare a una nota stampa vera, formale, durissima e netta: «Intendo guidare un governo con una linea di politica estera chiara e inequivocabile - scrive Meloni prima dell’edizione serale dei telegiornali -. L’Italia è a pieno titolo, e a testa alta, parte dell’Europa e dell’Alleanza atlantica. Chi non fosse d’accordo non potrà far parte del governo, a costo di non fare il governo. Con noi l’Italia non sarà mai l’anello debole dell’Occidente, la Nazione inaffidabile cara ai nostri detrattori. Su questo chiederò chiarezza a tutti i ministri. La prima regola di un governo politico è rispettare il programma votato dai cittadini».
E quindi: o Berlusconi fa retromarcia o Fi dovrà andare oltre Berlusconi. Diversamente, o sarà frantumata dal voto in aula o si assumerà il rischio di tornare alle urne con un leader colpevole di aver sciupato una vittoria elettorale.