Meeting di Rimini, Julián Carrón - Fotogramma
Alla fine si sono trovati tutti d’accordo. La secolarizzazione? «Un dono di Dio che ci invita a entrare in una nuova profondità di relazioni» se non, addirittura, «una vocazione» (Rowan Williams, Professore emerito di Pensiero Cristiano Contemporaneo all’University of Cambridge e già Arcivescovo di Canterbury). L’incertezza di questo tempo? «Una sfida che diventa un’opportunità, una chiamata che viene dalla realtà» (Julián Carrón, Docente di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione). Dove porta questa chiamata? «È un invito a crescere nella fede, un invito a entrare in una certa realtà cui prima non avevamo accesso» (Charles Taylor, Professore emerito di Filosofia alla McGill University e vincitore del Premio Ratzinger 2019). Tutto ciò vi sembra un nonsense? E invece, testimonia Taylor, «c’è un’apertura forte nell’età secolare».
L’incontro di ieri tra Charles Taylor, Julián Carrón e Rowan Williams, tre dei massimi esploratori delle frontiere che dividono (e uniscono) fede e secolarizzazione è parte integrante dell’omonima mostra, presentata quest’anno al Meeting. Il focus della quale, come abbiamo già spiegato su Avvenire, è la possibilità di vivere l’incertezza del presente e il fenomeno della secolarizzazione come una grande opportunità per la riscoperta, da un lato, della natura dell’io e, dall’altro, dell’originalità dell’avvenimento cristiano. Ieri pomeriggio, si è tenuto il "faccia a faccia" (ma solo Carron era in presenza) tra gli ispiratori di questo percorso.
Per il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, dobbiamo avere «la lealtà necessaria di assecondare
le nostre domande» senza farci bloccare dall’incertezza
Concordi, a partire da Williams, sulla necessità di smontare l’equazione secolare=male. «Noi spesso non sappiamo identificare il nemico, che è Satana e che si identifica in colui che cerca di convincerci a non fidarci di Dio». Per Carron, «percepiamo l’incertezza come nemica perchè riteniamo di conoscerla e che non vi sia alcuna possibilità di fare un’avventura ancora sconosciuta. Allora, la questione della paura è se – come dice Arendt – siamo in grado di percepire un momento di crisi come la possibilità di porre delle domande che faranno piazza pulita di molte nostre "certezze" e che ci faranno scoprire qualcosa di forse più essenziale per vivere. Se cioè abbiamo la lealtà necessaria di assecondare queste domande senza farci bloccare dalla paura».
Ma c’è paura e paura. Quella che ci paralizza e quella che ci stimola a cambiare, come ha sottolineato Williams. Quella che fa emergere la nostra impotenza e quella che ci fa scoprire l’importanza di una "presenza" al nostro fianco, come la mamma che accompagna il bambino nel buio, il quale in quell’istante non fa più paura, come ha spiegato Carron. La paura, quindi, poggia sempre su un vuoto di esperienza e di senso, che accomuna chi crede e chi non crede, ma che può essere riempito.
Può aiutarci persino una pandemia, ha ammesso Carron. «Come dice Taylor, nella paura dell’altro si parte non da esperienze vissute, ciascuno si fa un’idea sua di cosa sia il cristianesimo o l’ateismo. Fa la differenza se si riesce a fare una esperienza comune dell’altro – ha raccontato ieri – e la pandemia ha consentito a tutti di fare una esperienza condivisa: tutti siamo stati sfidati e coinvolti nell’identica esperienza comune e abbiamo visto che avevano domande comuni. Da lì abbiamo potuto verificare i nostri presupposti e tentare di stare nel reale. Se uno è stato leale con quell’esperienza forse la pandemia può essere inizio di un dialogo su cosa serve per vivere, perchè finalmente abbiamo un’esperienza comune in cui ci sono state date delle risposte, che ciascuno ha verificato».
Più o meno come la pensa anche Williams, «tanto spesso ci poniamo le domande sbagliate su credenti e non, dovremmo sederci e ascoltare» – il quale ha sottolineato lo specifico dell’esperienza cristiana, spesso misconosciuta o, almeno, ignota ai più. «La Cristianità non è un sistema religioso, ma, come insegna il teologo greco Yannaras, ha a che fare con l’abitare il corpo di Cristo; la stessa Chiesa non è una istituzione ma una realtà spirituale».
Avviato questo dialogo, resta il tema della scelta religiosa (e non) che si dipana da quello della libertà, caro se non carissimo a Comunione e Liberazione. È stato Williams a ricordare che la libertà cristiana ha una natura oblativa: «dare la vita agli altri è la libertà ultima, autentica e generativa»; Taylor ha spiegato che questa libertà reale discende dalla nostra natura e, a rigore, non può neanche essere "scelta" dall’uomo; Carron ha ammesso che «il potere sia laico che clericale cerca sempre di convincerci che staremo meglio se riunuceremo alla nostra libertà, ma Giussani insegnava che una salvezza che non fosse libera non sarebbe salvezza».
Questa libertà piena con cui superiamo la paura la si conquista, ha detto infine Carron, quando ci si libera dall’inclinazione di accettare le briciole di libertà che ci offrono i vari poteri terreni e si fa una esperienza di pienezza di vita. «Diversamente – ha commentato – è facile dire che si è liberi, ma spesso lo si è solo nella propria stanzetta e si è sempre a caccia delle briciole, da qualsiasi tavola vengano». Vale anche per il nostro modo di essere cristiani. «Dobbiamo capire che la vera natura della nostra religione non è quella di un insieme di regole, ma come un incontro con la realtà storica di Gesù che ci fa fare esperienza di una pienezza di vita altrimenti inimmaginabile».