Giovani volontari al Meeting (Gallini)
«…Quando muore un ragazzo con cui hai lottato e ti sei divertito insieme, non puoi fare a meno di restare sgomento e di provare un tardivo senso di colpa. E' vero che quando si muore così non si può neanche gridare 'poliziotti assassini'. Ce l'avevamo immaginata diversa la morte di un nostro compagno: ucciso dai fascisti, dalla polizia e noi in piazza a gridare la nostra rabbia, a sfogare il nostro dolore. Certo anche Roberto è stato ucciso dal nemico, dal più malvagio di tutti: da questa sporca società in crisi. Ma morire così, da solo, in una giornata d'agosto, in un'auto piena di gas di scarico... No! Anni fa pensavamo che la rivoluzione fosse lì dietro l'angolo ad attenderci cortese e sorridente. Si avanzava decisi verso lo 'scontro decisivo'. Ma molti 'scontri decisivi' passavano e tutto pareva rimanere immutato. Quel piccolo ritardo, irrilevante sul calendario della storia, diventava per alcuni la misura di un fallimento. In contrasto con questa esasperante lentezza, la nostra vita, quella sì, correva veloce e senza intoppi: ti toglieva la giovinezza, ti spingeva ad un lavoro che non c'era o in ogni caso quasi sempre ad un lavoro schifoso. Ma questa è solo la metà della storia. Se fosse solo questo sarebbe sufficiente dire che il nostro orologio politico andava troppo avanti... Questa morte non è il frutto del caso. Egli è morto anche perché siamo stati "disumani", tutti noi, Roberto incluso, vittime di un certo modo di fare politica. Disumano è stato mandare allo sbaraglio i compagni davanti alle fabbriche; è stato il modo con cui si sono trattati i compagni "silenziosi" che non parlavano quasi mai alle riunioni, gli "stupidi" perché quando parlavano dicevano (male) due ore tre cose che parevano banali; disumani sono stati i piccoli e grandi leaders depositari del sapere e del potere: disumani sono stati i rapporti ai cancelli con gli operai che per noi erano di volta in volta o fonti di notizie, o lettori dei nostri volantini, o persone a cui spiegare la rivoluzione. Quanti sono i compagni persi per strada, allontanati da questo modo di fare? Chi ricorda i loro volti, chi ha mai conosciuto la loro storia? Roberto è morto ed è sciocco e retorico dire ora delle frasi tipo “lotteremo anche per lui”, “lo avremo sempre al nostro fianco”; è cinico affermare che bisogna fare che Roberto non sia morto invano: significherebbe trovare a questa morte orrenda una giustificazione a posteriori. Ma tra i tanti motivi che ci spingono a modificare il nostro comportamento politico e personale, c'è anche il desiderio che nessun compagno sia costretto più ad andarsene così: c'è il desiderio che tra la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra squallida pratica quotidiana non si lasci più aperto un varco così grande dove un uomo possa perdersi". Un compagno di Roberto (Ivrea).
È una lettera struggente comparsa sul quotidiano Lotta Continua, il 27 novembre del 1977, per ricordare Roberto, un giovane che si era suicidato alcuni giorni prima. Il ’77 è stato il figlio degenere del Sessantotto. Chi ha vissuto quegli anni può capire. Chi non li ha vissuti, ha voglia di farlo oggi, al Meeting. Nel salone A5 della Fiera riminese sono in mille, la maggior parte in piedi, ad ascoltare Pier Alberto Bertazzi parlare del Sessantotto, in tanti nello stand accanto sono invece in fila ad aspettare il loro turno per vedere la mostra incentrata proprio sui 50 anni dalla grande contestazione, che continua a catalizzare l’attenzione, soprattutto dei giovani che quegli anni li hanno sentito solo raccontare. In quel 1977 l’utopia divenne violenza, per alcuni divenne anzi «attacco al cuore dello Stato», di lì a qualche mese, sarà rapito Aldo Moro e massacrata la sua scorta.
E Bertazzi è un testimone prezioso. Fu lui verso la fine del 1969 e l’inizio del 1970 (ai tempi dell’autunno caldo e della strage di Piazza Fontana che infiammarono le piazze di tutta Italia) da studente di Gioventù studentesca della Statale di Milano, a usare per la prima volta l’intestazione “Comunione e Liberazione” in un volantino diffuso in università da un gruppo di ragazzi. Il tutto nacque, come ricostruisce il volume biografico sulla via di don Giussani a cura di Alberto Savorana, «in un tardo pomeriggio dell’autunno del 1969, in via Bagutta, nella sede della Jaka Book». Quella dicitura piacque inizialmente all’allora responsabile della casa editrice Sante Bagnoli. Solo dopo, appena dopo, Giussani apprezzò l’idea e divenne un “quartino” a uscita periodica. Quella sigla è direttamente figlia, quindi, della temperie di quegli anni, in cui i giovani cercavano la liberazione e si allontanavano dalla Chiesa. Il sacerdote brianzolo pensò che fosse quella la sigla giusta per far passare, in piena controcorrente, che solo da una comunione cristiana può nascere la liberazione vera, quella che non delude, che non tradisce.
«C’era un’esigenza di autenticità che animava il Sessantotto che era percepita anche da Paolo VI», ricorda Bertazzi. «Ma nel
tempo quell’aspirazione a voler cambiare il mondo per tanti è diventata la strada della distruzione di sé. Sull’onda della delusione tanti sono finiti nella droga, sull’onda di una generosità tradita». Bertazzi invece, dopo mezzo secolo, è qui a raccontare ai ragazzi che in tanti sono venuti ad ascoltarlo, la sua gratitudine per aver incontrato un’esperienza che invece «dava speranza, cosa ben diversa dall'ottimismo, perché se la speranza riguarda il futuro non può che essere radicata in una certezza nel presente». E non è imbarazzante scoprire che Comunione e Liberazione – la dicitura, almeno – non l’ha inventata Giussani. Il sacerdote fondatore di Cl ha sempre tenuto a precisare, d’altronde, di non aver mai voluto fondare nulla nella vita. Ma di aver aiutato, semmai, tanti giovani, ad andare fino in fondo a loro stessi. Per giocare fino in fondo la loro vita, invece di buttarla via, come accadde per tanti, in quegli anni.