Un momento dell'incontro al Meeting di Rimini - Collaboratori Avvenire
L’io cristiano è l’alternativa all’individualismo, ma ci vuole tanto coraggio per capirlo (e praticarlo). Lo ammettiamo, sembra un calembour e invece è teologia. Di quella che aggiorna, ad esempio, la prassi della testimonianza: sovente, per rendere ragione della fede nel mondo pluralistico, quest’ultima tracima infatti nella pretesa di far la parte di Dio. L’io che non va oltre, in rapporto alla fede e alle culture, è stato discusso ieri al Meeting da Adrien Candiard, OP, membro dell’Institut dominicain d’études orientales (Ideo) e da Agbonkhianmeghe E. Orobator, SJ, presidente della Conferenza dei gesuiti dell’Africa e del Madagascar (Jcam), che sono autori di due opere centrali in questa riflessione – rispettivamente "La speranza non è ottimismo" e "Confessioni di un animista", entrambe edite da Emi – e che a Rimini si sono interrogati su cosa abbia da dire la fede all’uomo nell’età dell’incertezza.
I due religiosi hanno inquadrato la riflessione in un dialogo tra Dio e l’uomo che è più antico della stessa Rivelazione.
Partiamo dalla fine, cioè dalla confessione del domenicano: «Anch’io non sono abituato a dire io – ha ammesso –: nell’annuncio della Parola può esserci la difficltà di dire io e soltanto io perché spesso vorremmo rappresentare tutta la Chiesa e fare addirittura il lavoro di Dio, perché non abbiamo fiducia che Lui intervenga nel dialogo con l’uomo. Ma è così che ci troviamo a sostenere una responsabilità impossibile e siamo presi dalla paura di non farcela: e non ce la si fa perché è impossibile portare le persone a credere, ma cercando di farlo non facciamo ciò che possiamo fare, la nostra parte».
Anche quella di Orobator è stata una confessione. Figlio di animisti, convertito al cattolicesimo in età adulta, il gesuita si è presentato a Rimini con tutta la sua Africa. «Quando mi convertii – ha ricordato al Meeting – i cristiani che prima mi trattavano con disprezzo si aspettavano che ripudiassi le mie radici, ma un leopardo non perde le sue macchie anche se attraversa il fiume». Soprattutto se in quel fiume scorre il magistero di papa Francesco e oggi cristiani come padre Orobator possono dire che «la religione africana ha risvegliato la mia coscienza della realtà e il cristianesimo l’ha ampliata. Come diceva Paolo VI l’africano che diventa cristiano non disconosce se stesso ma affronta gli antichi valori della tradizione in spirito e verità».
Il focus di quest’analisi della conversione dall’animismo al cristianesimo non si proietta unicamente sulla vita del convertito. Alla luce della fede africana – che «è un modo di vivere, non un insieme di dogmi» ha sottolineato – l’io è «il punto di partenza per incontrare l’altro, che sia un albero, una persona o Dio». Un io che abbraccia l’anima dell’altro e che si declina in un rapporto informato da questa relazione inclusiva, umanizzante e trasformativa, che il gesuita ha fissato attraverso le tre priorità del nostro tempo: solidarietà, fraternità e ospitalità. «Io credo nella vitalità del Creato – ha puntualizzato –: esiste un potere invisibile in qualsiasi cosa, che gli da vita; papa Francesco condivide quest’idea come si legge nell’enciclica Laudato sì. Tutto è carezza di Dio».
Da questa visione discende l’attenzione all’ecologia integrale, ma è sulla fraternità che si coglie lo spessore dell’io africano, che si rispecchia nell’enciclica Fratelli tutti e concepisce l’esistenza della persona solo attraverso la relazione con gli altri e il Creato: la mia esistenza, la mia umanità traggono forza dalle interazioni con le altre persone. Essere umani significa essere aperti verso gli altri e questo è l’ubuntu», un concetto basilare della cultura africana che impedisce all’io di porsi nella realtà come una coscienza isolata. «Io dipendo dalle altre persone, il mio universo è aperto e inclusivo» ha ripetuto ieri a Rimini, invitando all’ospitalità – terza priorità –, traendo forza dalla tolleranza che contraddistingue l’antica cultura religiosa delle popolazioni africane.
Questi concetti tornano nell’esperienza – certamente molto diversa, poiché si sviluppa nel rapporto con l’Islam del Cairo – di Candiard. «Essere al servizio dello Spirito Santo – ha argomentato dal canto suo il domenicano – non vuol dire cercare di capire cosa dobbiamo dire al mondo ma sentirci al servizio di una conversazione antica, un dialogo che Dio ha cominciato col primo uomo e che continua. Purtroppo, ci troviamo spesso a pensare diversamente e percorriamo in vie senza uscita. Quando pensiamo che dobbiamo affermare posizioni della Chiesa che non interessano a nessuno, perchè tutti credono di conoscerle già, e non ci decentriamo dalle nostre storielle… Esse sono distrazioni, come ci ammonisce il Papa, quando parla di autoreferenzialità».
Nel dialogo tra Dio e l’uomo che la Chiesa deve servire, ha aggiunto Candiard, la Rivelazione è una parte importante ma non è il tutto. Lui trova modo di parlare attraverso gli individui ma anche attraverso le società e le religioni. Non crederci porta alla tentazione di prendere il posto di Dio». Raccontando la propria esperienza tra i teologi musulmani, fatta di tanto ascolto, il religioso ha esortato a lavorare contro la diffidenza che allontana le religioni: «La nostra strategia dev’essere il disarmo, usciamo dalle nostre cittadelle minacciate, con amicizia e fiducia…». Un atteggiamento che comporta il rovesciamento dell’io: «Dobbiamo dire io, certo, ma solo per lasciare l’altro a ricevere il “tu” che Dio gli sta indirizzando». Ricordandoci – come ha commentato nel sottolineare la dimensione oblativa di questo io – che «il posto di salvatore del mondo è già occupato».