mercoledì 14 giugno 2023
Da "L'Italia è il Paese che amo" al kit del candidato, cronaca di una campagna elettorale permanente: così l'uomo di Arcore ha conquistato un consenso durato decenni
Silvio Berlusconi mostra il celebre "Contratto con gli italiani" firmato durante una puntata di "Porta a Porta" del 2001

Silvio Berlusconi mostra il celebre "Contratto con gli italiani" firmato durante una puntata di "Porta a Porta" del 2001 - Ansa

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La politica secondo Silvio Berlusconi era un mezzo, non un fine. Era lo strumento necessario per garantirsi il potere. Un male necessario. Per questo Berlusconi non amava i giochi di palazzo. Era altro ciò che solleticava l'ego dell'imprenditore: cimentarsi con l'arte dell'impossibile. Più un traguardo sembrava lontano, più la spinta per raggiungerlo raddoppiava. Tutto era consentito, va detto, per garantirsi il successo.

Più gli altri dicevano che una cosa non andava fatta, più il seduttore delle folle e dei pubblici televisivi si divertiva a dimostrare il contrario. Non volete che scenda in campo? E io lo faccio. Credete che il Paese abbia già scelto la “gioiosa macchina da guerra” dell’ex Pci? Datemi due mesi, un confronto tv e ribalterò le sorti della partita. Non c'è possibilità di riunire leghisti e post-missini? Io vi dico che si può. E via di questo passo.

La politica, in questo senso, fu solo il contesto ideale in cui esercitare ciò che aveva appreso nella vita di privato cittadino. Non fu una scelta e neppure una vocazione. Fu senza dubbio una necessità. E proprio la gran capacità del fondatore della Casa delle libertà di riunire gli opposti, di tenere insieme sensibilità diverse, di indicare a tutti una speranza, un orizzonte a cui votarsi, gli permise di trasformarsi immediatamente nell’uomo del cambiamento così atteso.

Ma fu una metamorfosi legata al percorso precedente (e al contesto contingente). Perché il dna dell’uomo di cui oggi si celebrano i funerali di Stato restò non quello del politico, ma del venditore. Intendiamoci: un venditore di straordinario successo. Tale era alle origini, tale è rimasto una volta intraprese le mille altre vite, compresa quella che lo portò più volte a Palazzo Chigi.

Tutto, nella logica del visionario che amava sport e spettacolo, andava semplificato e finalizzato alla conquista dell’elettore, così come del cliente. Silvio Berlusconi è stato innanzitutto un grande comunicatore, eccellente nell’arte dell’affabulazione. Ebbe l’intuizione fondamentale, decenni prima dell’avvento dei social network, di applicare le regole del marketing alla politica, la forza del brand dentro la “foresta pietrificata” dei partiti.

Erano le regole del consumo e lui le conosceva meglio di chiunque altro: il nome accattivante, i colori giusti, le luci soffuse. Il gran battage pubblicitario, meglio se porta a porta, le mentine, la stretta di mano vigorosa, il sorriso. E poi gli slogan: “L’Italia è il Paese che amo” nel primo discorso alla nazione in videocassetta. “Una storia italiana”, agiografico pamphlet arrivato nella casella postale delle famiglie italiane.

E poi “mi consenta”, “il kit del candidato”, “il presidente operaio”: ogni stagione uno slogan lasciato ai posteri, con la non trascurabile abilità di trasformare ironie e sfottò sull’Italia delle banane a sua volta in punto di forza. Ben venga allora che “meno tasse per tutti “ diventi “meno tasse per Totti”: da programma politico si passa al discorso da bar, aumenta la massa critica del messaggio, si moltiplica la pubblicità dalla cartellonistica all’online. L’importante, in fondo, è che se ne parli. Tutto era studiato, nei minimi particolari.

Come fu per l’uso dei sondaggi, per la prima volta introdotti su larga scala: non servivano solo fotografie statiche della realtà, fatte di numeri freddi e analisi razionali. No, c’era qualcosa di più profondo da cogliere: lo stato d’animo del Paese. Non c’erano i social, è vero, ma la televisione era un potente veicolo di comunicazione politica. In casa (Mediaset) e fuori (Rai).

Nessuno dirà mai che i sondaggi servivano a creare consenso e a spostare voti, ma certo imponevano l’agenda politica e creavano quel curioso effetto band wagon (la salita sul carro del vincitore) di cui Silvio Berlusconi approfittò tante volte, anche quando si trovò a rimontare situazioni disperate.

Accadde così nel 2006, nella disfida con Romano Prodi, quando lui per primo si accorse che il sogno di piacere a tutti era finito: al consenso come ragione di vita aveva sostituito per necessità l’obbligo del pragmatismo. Ecco allora il “cinquanta per cento più uno degli italiani”, percentuale sventolata nei quindici anni successivi sempre con lo stesso intento di prima: alzare l’asticella al massimo, sorprendere, tentare l’impossibile.

La campagna elettorale permanente è stata la cifra del suo impegno: l'obiettivo non era soltanto guidare il Paese, ma riuscire ad assecondarlo e blandirlo al Tg della sera. Una sola scaletta (televisiva) un solo tema da dare in pasto all'opinione pubblica, una sola persona al centro. E gli altri a inseguire.

Ora si parla tanto di piattaforme: ma chi inventò i famosi 6x3, i predellini, addirittura le navi (ricordate la “Nave Azzurra”) pur di veicolare i propri contenuti? Silvio Berlusconi si esaltava nel contatto diretto con le folle: adorava i monologhi in pubblico, sollecitava l’abbraccio, dava il meglio nella provocazione diretta e nella comunicazione pubblica.

E poi c’era quello che venne ribattezzato “l’esercito dei cloni”, non solo politici e politicanti di vario livello, ma soprattutto una classe dirigente forgiata a sua immagine e somiglianza dentro Publitalia, scelta in molti casi per incarichi nazionali di primo piano, a Roma e nell’’amministrazione dei territori.

Abituati come eravamo alle liturgie profonde e pensose della Prima Repubblica, il suo avvento doveva per forza essere una rivoluzione.

Jacques Séguéla, l’ideatore della storica campagna mitterrandiana de “La force tranquille”, diceva sempre che Berlusconi era il messaggio, non serviva nient’altro. Toccava agli altri leader cambiare il copione e dire: votate per voi, non per lui. Tranne un’importante eccezione, Romano Prodi, nessuno negli anni del suo massimo fulgore ha saputo uscire dall’ossessione di Arcore, cercando sempre di contrapporsi. Anche nelle epoche successive, valutava i leader emergenti partendo da se stesso: di Beppe Grillo nel 2013 ad esempio diceva «mi somiglia, ma è la mia brutta copia».

Il suo arrivo nella competizione politica ha finito così per dividere profondamente mondi che fino a poco tempo prima stavano insieme. Emblematica fu la distanza, evidente sin da subito, con il cattolicesimo democratico. Non poteva che essere così: per tanti laici impegnati, all’epoca, il bene comune e il servizio al Paese venivano giustamente prima. Prima anche della propria carriera. La responsabilità pubblica era frutto di un percorso lungo, elaborato, fatto di studio e di impegno sul campo.

Arrivava invece un uomo per cui il bene comune si traduceva così: se va bene a me, che ho avuto successo, andrà per forza bene a tutti. Fidatevi e seguitemi, avrete successo. Era una rottura profonda, che infatti divise anche gli eredi della Democrazia cristiana. Individualismo contro comunitarismo. L'io prima del noi. Tanti non erano pronti a sostenere quel confronto. E a risentirne non furono solo la politica e il palazzo.

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