Un fermo immagine tratto da un video dei carabinieri di Palermo ripreso durante l'indagine che ha portato al fermo di 23 persone, tra queste anche Antonio Gallea - Ansa / Carabinieri
«È una grande delusione, gli avevo dato tutta la mia fiducia. Ma questo non cambia la nostra missione. Io non mi arrendo. Bisogna sempre offrire percorsi di riabilitazione e reinserimento ai detenuti. Una storia del genere non può mettere in cattiva luce tutti quelli che veramente vogliono fare un percorso di cambiamento».
Per don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, «è stato un fulmine a ciel sereno» l’arresto di Antonio Gallea, uno dei mandanti dell’omicidio di Rosario Livatino, accusato di essere tornato a guidare la "stidda" agrigentina malgrado l’ergastolo. Il sacerdote, per 23 anni cappellano nel carcere di Secondigliano, lo conosce da 11 anni. «Abbiamo iniziato un percorso in carcere, poi diedi la mia disponibilità all’accoglienza nel Centro Regina Pacis della Caritas a Giugliano. Cominciò ad avere permessi di uno o due giorni. Poi 5 anni fa ha ottenuto la semilibertà. Stava nel nostro centro e, le assicuro, era un volontario modello».
Nel decreto di fermo della Dda di Palermo si legge, citando proprio «l’attività di volontariato» con la Caritas, che «la lunga carcerazione per l’omicidio del giudice Rosario Livatino non ha avuto alcun effetto di resipiscenza nel Gallea che, anzi, ha sfruttato la normativa premiale, prevista anche per i detenuti ergastolani, al fine di reinserirsi nel contesto criminale di appartenenza e tentare di ri-affermarsi, sotto il profilo mafioso/stiddaro, con i metodi che caratterizzano le associazioni mafiose».
Molte le gravissime prove raccolte. Eppure, ricorda don Raffaele, «gli avevo affidato l’orto dietro al centro che ha accolto molti detenuti in permesso, frutto dell’attività pastorale a Secondigliano. Si occupava di distribuire i pasti alla mensa dei poveri, anche durante il lockdown. Mi fidavo di lui. Apriva e chiudeva il centro».
Non solo attività pratiche: «Lo seguivo spiritualmente, veniva a Messa e agli incontri di preghiera. Si confrontava con me e io come padre spirituale ho fatto di tutto per lui. Sono sacerdote, devo dare la forza per riprendere il cammino. Per questo ora sono così deluso. Ma sto pregando per lui».
Ora la maggiore preoccupazione di don Raffaele è che la vicenda possa essere strumentalizzata. «Purtroppo tra chi chiede un aiuto ci può essere qualcuno che continua a sbagliare. Ma non può essere una scusa per dire "non crediamo più a nessuno". Conosco bene la realtà dei detenuti, molti si sono pienamente inseriti del tessuto sociale, poi purtroppo qualcuno non cammina bene. Ma non bisogna mai chiudere la speranza».
Come aveva fatto con Gallea, pur conoscendo la sua storia criminale e in particolare le responsabilità per l’uccisione del magistrato: «Ne abbiamo parlato tante volte. Ma faceva parte del suo passato, ammetteva l’errore. Diceva sempre "Don Raffae’, peccato che avevo solo vent’anni". Mi spiegò che lo avevano ucciso perché era integerrimo, non si faceva corrompere, anche grazie alla sua fede. E per questo è stato molto contento per la beatificazione, anche perché aveva testimoniato al processo canonico».
Intanto però stava riorganizzando il clan e i suoi affari. «In questi anni con noi non è emerso nulla. Niente che mi facesse intuire qualcosa. Ho conosciuto anche la famiglia. L’avevo visto cambiato. Evidentemente è stato bravissimo a fingere». In questo periodo Gallea non rientrava in carcere per la pandemia e aveva trovato un appartamentino. «Ci siamo sentiti pochi giorni fa perché alcuni detenuti avevano ricevuto il decreto per il rientro in carcere il 28 febbraio. Lui lo aveva per il 31 gennaio. Io gli ho consigliato comunque di rientrare, per non commettere errori che gli potevano costare caro. E lo ha fatto».
L’ultimo incontro domenica: «È venuto a Messa, ha collaborato coi volontari, due giorni dopo ci siamo sentiti telefonicamente». Poche ore prima dell’arresto. «Se ha commesso reati ce lo dirà il percorso della giustizia e Dio lo perdoni. Come sacerdote nessun problema a reincontrarlo. Non chiudere le porte anche a chi ha sbagliato, ci dicono il Signore e papa Francesco, sempre disponibili a perdonare».
Gallea, il mandante dell'omicidio di Livatino
L’operazione “Xydi” della Dda di Palermo ha portato in carcere 23 persone, che stavano concludendo un’alleanza criminale tra Cosa Nostra e Stidda agrigentina, tra cui Antonio Gallea, il boss mandante dell’assassinio del giovane magistrato Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990. Gallea era stato ammesso alla semilibertà dal Tribunale di sorveglianza di Napoli il 21 gennaio 2015 perché aveva mostrato volontà di collaborare con la giustizia.