mercoledì 19 maggio 2021
Nella Relazione della Commissione parlamentare antimafia l’ossequio allo «straordinario magistrato» e la ricostruzione del contesto dell’epoca, «omertoso e ostile»
AL CENTRO IL GIUDICE ROSARIO LIVATINO, CON I GENITORI E DEGLI AMICI (PALERMO - 1995-09-21)

AL CENTRO IL GIUDICE ROSARIO LIVATINO, CON I GENITORI E DEGLI AMICI (PALERMO - 1995-09-21) - Fotogramma Caramanna / Giacominofoto

COMMENTA E CONDIVIDI

Il giudice Rosario Livatino è stato beatificato domenica 9 maggio nella Cattedrale di Agrigento. Il giovane magistrato fu ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 mentre si recava in tribunale. Il 22 dicembre papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto che ne riconosce il martirio «in odio alla fede». La cerimonia è stata presieduta dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione della causa dei santi.

«L’uccisione di un magistrato scrupoloso, lungimirante, soprattutto coraggioso e di elevato rigore morale. Un uomo giusto». Così la Commissione parlamentare antimafia definisce l’omicidio del giudice Rosario Livatino. Sono le ultime parole della Relazione, approvata ieri, relatori Pietro Grasso e Gianluca Cantalamessa, dedicata al giovane magistrato ucciso il 21 settembre 1990 e beatificato lo scorso 9 maggio. Un documento, si legge nelle prime pagine, che vuole «valorizzare il profilo di magistrato giovane e valoroso, il cui straordinario valore intellettuale si completava con doti professionali fuori dal comune ». Ma è «anche occasione per tentare di ricostruire il clima che segnava la provincia agrigentina».

Anni di omicidi quotidiani «al punto che gli abitanti avevano timore ad uscire e avevano attuato una sorta di naturale coprifuoco in forza del quale all’imbrunire, le strade della città erano frequentate solo da 'squadre di morte'». La Relazione cita vari provvedimenti di Livatino, e parla dell’«esemplare opera di uno straordinario magistrato».

Dai documenti, si legge, «appare nitida la sua profonda conoscenza del fenomeno mafioso e ciò nonostante il fatto che non avesse potuto contare sull’ausilio delle informazioni dei pentiti» perché «il contesto socio-culturale nel quale egli viveva e lavorava, particolarmente ostile, omertoso non favoriva alcuna forma di collaborazione». Malgrado queste difficoltà, «la sua profonda conoscenza della provincia agrigentina e in particolare di Canicattì ove viveva con i genitori, il suo attento studio e rigoroso approfondimento delle vicende che gli venivano sottoposte, quale traspare dalla lettura dei provvedimenti da lui vergati a mano, uniti al suo essere un giudice estremamente accorto e competente, gli consentivano di comprendere a fondo il significato delle vicende che doveva giudicare».

Ma soprattutto «era il suo ben noto coraggio di assumere decisioni adeguate alla realtà che era chiamato a valutare a renderlo un avversario estremamente temibile e infatti fortemente avversato dalle organizzazioni criminali ». Ed era un gran lavoratore. Come sostituto procuratore aveva avanzato dal 1988 al 1989, «79 proposte per applicazione di misure di prevenzione» nei confronti di mafiosi di peso. Come giudice del Tribunale «in poco più di un anno, aveva emesso 50 decreti in materia di misure di prevenzione» contro mafiosi dallo «spiccato spessore criminale».

La Commissione ricorda il decreto, appena due mesi prima dell’omicidio, di confisca dei beni dello stiddaro di Canicattì, Vincenzo Collura che «non era uno qualsiasi – sottolinea l’Antimafia – . Il mandante dell’omicidio di Livatino, Giovanni Calafato, riferiva che era animato da un profondo rancore nei confronti del giudice che neanche la morte di quest’ultimo aveva potuto acquietare: il Collura infatti si rendeva autore di uno spregevole gesto, la profanazione della tomba del giudice nella notte tra il 22 ed il 23 aprile del 1991, e se ne vantava».

La Commissione ricorda anche un provvedimento che Livatino non riuscì a prendere, nei confronti di Giuseppe e Gaspare Calafato e Francesco Allegro. «Avrebbe dovuto essere deciso la mattina nella quale nel raggiungere il suo ufficio, trovava la morte». Ebbene, afferma la Commissione, «il provvedimento rivela la piena conoscenza delle strutture mafiose operanti sul territorio e la sua chiara comprensione del significato dei numerosi episodi delittuosi».

Livatino, descrivendo Palma di Montechiaro, scriveva che «l’impressionante serie di attentati alla proprietà privata e di reati contro il patrimonio costituiscono una prova tanto obiettiva quanto eloquente dell’esistenza in tale centro di agguerriti gruppi criminali organizzati, ai quali soltanto può ricondursi un’attività sì devastante e duratura. L’ancor più sconvolgente susseguirsi di omicidi e tentati omicidi costituisce un sintomo inequivocabile della connotazione mafiosa di questi gruppi e della esistenza di uno stato di conflitto fra gli stessi che può senz’altro definirsi cronico e senza quartiere». E aggiungeva come fosse «una cittadina oppressa da questa deteriore manifestazione della sua convivenza sociale »che «appare averla permeata al punto da condizionarne inevitabilmente espressioni e abitudini di vita collettiva ». Meno di un mese dopo veniva ucciso.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: