Per Youness Warhou, 23 anni, sentirsi italiano ma non esserlo sulla carta significa un sogno infranto. «Da piccolo – racconta – sono cresciuto con il mito del pilota d’aereo, era il mio obiettivo anche durante le superiori, frequentate prima a Napoli e poi a Reggio Emilia». Una volta diplomato perito informatico, però, l’aereo si è fermato sulla pista di decollo: niente da fare, per quella carriera serviva la cittadinanza italiana.
«L’unica possibilità – dice – era tornare in Marocco, ma ormai ero legato all’Italia. Passare l’adolescenza in un luogo, sperimentarvi i primi amori e le amicizie giovanili, sviluppa appartenenza a quel Paese». Il rimpianto è rimasto ma Youness, arrivato dal Marocco a 14 anni, non si è fermato: oggi studia Ingegneria gestionale all’Università di Modena e Reggio Emilia e, nel tempo libero, lavora come programmatore informatico. Ogni tanto il senso d’ingiustizia riappare: «Quando leggo un concorso di un’amministrazione pubblica per cui basta avere la terza media, ma ha come requisito la cittadinanza italiana o di uno Stato Ue». In quel caso il suo diploma e l’ottima media all’università non contano nulla, è squalificato in partenza.
«Oppure – aggiunge il ragazzo, che è appassionato di politica – quando non posso votare per decidere le sorti del Paese che sento come il mio». Sì, perché Youness, nonostante il passaporto di un altro colore, si sente italiano. «Quando stai cinque anni sugli stessi banchi di scuola – dice – ti vengono trasmessi i valori dell’Italia di oggi». Allo stesso modo «il caffè al mattino e la pasta una volta al giorno sono diventati irrinunciabili». Qualche volta, addirittura, arriva a correggere il congiuntivo agli «autoctoni».