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E così mesi di dotte disquisizioni giuridiche e di sottolineature sugli equilibri istituzionali da tutelare si sono dissolti in un baleno davanti al sonoro «chissene importa» scandito domenica da Giorgia Meloni. Un soffio che tramuta «la madre di tutte le riforme» in poco più di un capriccio, voluto certo pensando al Paese, ma per il quale la premier non ha alcuna voglia di legare il suo destino (Renzi impari!): l’importante è durare al governo 5 anni e poi gli italiani mi giudicheranno, dice la Giorgia nazionale. Con l’approssimarsi del voto emerge sempre più una duplice natura del capo del governo: nei consessi internazionali dall’aplomb quasi rigoroso, nei meeting di partito (vedi Vox) e sul fronte interno quasi “caciarona” - per così dire - e orgogliosa-mente popolana, come ella stessa ha rivendicato più volte. Può essere anche questo uno dei segreti del suo successo, non c’è dubbio, ma lo scarto c’è e va fatto notare. Può essere l’effetto anche della campagna elettorale, che porta di per sè a esasperare i toni. Resta comunque un senso di spaesamento davanti allo spessore di un’argomentazione che, anche di fronte a un intervento così vitale per il futuro del Paese, non poggia su basi e analisi approfondite, ma su un sentimento più consono a una rivendicazione giovanilista. L’Italia da scardinare e da rivoltare alla fine non merita nulla più di un motto che vorrebbe avere uno spirito quasi dannunziano, ma che somiglia assai più a uno sberleffo “da borgata” (con tutto il rispetto per le borgate). Senza entrare nel merito dei tanti nodi irrisolti per i quali, d’altronde, il governo non fa che rimandare alla legge elettorale futura. Accrescendo peraltro il dubbio: ma per dare più stabilità all'esecutivo, obiettivo di per sé riconosciuto come valido da più parti, non bastava agire sulle regole del voto piuttosto che dar vita a una siffatta riforma costituzionale?