Una motovedetta libica entra nel porto di Tripoli con a bordo 47 migranti, tra cui 30 donne e un bambino recuperati in mano. Molti di loro tornano nelle prigioni, con un destino incerto, tra violenza, torture, sfruttamento e schiavismo, come denunciato anche dall'Onu - Archivio Ansa
«Chiedo al vostro governo di sospendere ogni attività di cooperazione con la guardia costiera libica che comporta, direttamente o indirettamente, il respingimento di persone intercettate in mare», e riportate a terra nei campi di tortura di un Paese in guerra civile. La richiesta della commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa al governo italiano è perentoria. E comincia da un rimprovero: «L’Italia deve riconoscere la realtà della situazione in Libia».
L’accusa, neanche troppo implicita, è che la "ragion di stato" impedisca al nostro governo di prendere atto della tragedia umanitaria, perciò la commissaria Dunja Mijatovic, in una lettera inviata il 23 febbraio al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, non è andata per il sottile. La Farnesina ha reagito quasi senza entrare nel merito, tuttavia facendo ammissioni. «Siamo pienamente consapevoli che esiste un margine di miglioramento nella cooperazione stabilita nel 2017 con la Libia, ma i dati in quanto tali – si legge nella lettera di risposta a Strasburgo – ci dicono che dobbiamo continuare a lavorare in questa direzione, piuttosto che disimpegnarci dal Paese».
Nei giorni scorsi aveva destato sconcerto la bozza di rinegoziazione del memorandum, anticipata integralmente da Avvenire, specie per alcuni passaggi. Le autorità libiche continuano a definire i campi di prigionia dei migranti come «centri di detenzione». Una definizione giuridicamente conforme a quanto stabilito dal governo libico che considera i migranti come degli irregolari da tenere agli arresti.
Nessuna menzione, da parte libica, sugli abusi, le torture, e quelli che l’Onu definisce «orrori indicibili» commessi indistintamente su uomini, donne e bambini. L’Italia, però, è riuscita a fare di più. Non solo nella bozza non parla mai di «centri di detenzione», ma addirittura arriva a definire le strutture, nel loro attuale assetto, come «centri di accoglienza». Un artificio lessicale che va ben oltre il bon ton della diplomazia.
La diminuzione delle morti nel Mediterraneo, passate da 2.853 nel 2017 a 743 nel 2019, «dicono che dobbiamo continuare a lavorare in questa direzione piuttosto che disimpegnarci da questo Paese», insiste il governo italiano. Ma da Strasburgo viene ricordato che la cattura in mare non è affatto una garanzia per la sorte dei migranti intercettati e ricondotti in un Paese «dilaniato dal conflitto» e da quale giunge «una grande quantità di prove che indicano gravi violazioni dei diritti umani subite da migranti e richiedenti asilo». Come dire che quelli bloccati in mare non vengono "salvati", ma riportati nell’inferno dei campi di prigionia finanziati dall’Italia e dall’Ue.
Dal Consiglio d’Europa, da cui dipende la Corte dei Diritti dell’Uomo e che ha ricevuto svariate denunce con l’Italia e l’Ue, viene ricordato che il memorandum d’intesa rinnovato lo scorso 2 febbraio, «gioca un ruolo centrale nel facilitare l’intercettazione dei migranti e richiedenti asilo in mare», che vengono riportati in Libia «dove sono soggetti a gravi violazioni dei diritti umani», ha sottolineato la commissaria.
«Per garantire efficacemente il rispetto dei diritti umani in qualsiasi cooperazione migratoria con Paesi terzi, qualsiasi attività prevista dovrebbe essere preceduta – è l’indicazione di Mijatovic – da accurate valutazioni del rischio per i diritti umani, sviluppare strategie per mitigare tali rischi, ideare meccanismi di monitoraggio indipendenti e stabilire un efficace sistema di ricorso».
Nella lettera indirizzata a Di Maio, il Commissario esorta il governo italiano a introdurre garanzie sui diritti umani nel corso della rinegoziazione. Pur rilevando che sono in corso discussioni per migliorare la conformità dei diritti «in futuro», il Commissario «invita l’Italia a riconoscere la realtà attualmente prevalente sul terreno in Libia e a sospendere le attività di cooperazione con la Guardia costiera libica».
Già nei mesi scorsi il commissario Mijatovic aveva fatto appello all’Italia e all’Unione Europea affinché venissero intraprese misure urgenti per sottrarsi all’accusa di complicità con trafficanti e torturatori, ponendo al primo posto nelle relazioni con la Libia il rispetto dei diritti umani. «Politicizzando una questione di natura umanitaria», gli Stati «hanno adottato leggi, politiche e pratiche che - ha denunciato il commissario nel giugno 2019 - sono state spesso contrarie ai loro obblighi giuridici di garantire efficaci operazioni di ricerca e soccorso, lo sbarco rapido e sicuro e un altrettanto tempestiva accoglienza delle persone soccorse, e la prevenzione di tortura e trattamenti inumani o degradanti».
Mesi dopo secondo il Consiglio d’Europa non vi sono stati significativi passi in avanti. Anzi, viene sottolineata «la necessità di valutare i rischi per i diritti umani dei migranti e dei richiedenti asilo».
Tuttavia da Strasburgo si dicono consapevoli degli sforzi compiuti dall’Italia, perciò verrà chiesta «maggiore solidarietà dagli Stati membri del Consiglio d’Europa con quei Paesi che, come l’Italia, sono in prima linea nei movimenti migratori verso l’Europa e per una migliore cooperazione, per garantire l’efficacia salvaguardia della vita e la protezione dei diritti umani delle persone in mare».