Il segretario Enrico Letta, Valentina Cuppi, Anna Ascani e Debora Serracchiani, nella sede del Pd nel corso della riunione della direzione del partito ieri a Roma - Ansa
La direzione nazionale Pd che approva il cammino congressuale proposto da Enrico Letta segna anche la fine dei tentativi di riconciliazione con gli altri pezzi di opposizione (almeno fino all’elezione dei nuovi vertici). È lo stesso segretario a chiudere le porte una volta per tutte, sia a Matteo Renzi, definito «stampella del governo» sia a Giuseppe Conte (che «gioca a fare il cavaliere solitario»). Per il resto la strada è tracciata e l’ordine del giorno sul calendario del nuovo congresso passa con 16 astenuti e 1 contrario, mentre la relazione dell’ex premier con 10 astensioni e 1 contrario.
Dopo la visita di primo mattino alla tomba di Giacomo Matteotti, il “parlamentino” dem alla fine di una riunione “tirata” ha ufficializzato le date che scandiranno il nuovo corso. La “costituente” porterà alle primarie il 12 marzo, ma il percorso partirà il 7 novembre con l’appello alla partecipazione e la promessa che «non sarà per fare da spettatore ma per decidere», come ha spiegato lo stesso numero uno uscente del Nazareno. Il tempo per presentare le candidature scadrà invece il 28 gennaio. «Il congresso non sia un derby tra Conte e Calenda – ha chiesto ancora Letta –. Abbiamo fatto un grande lavoro di espansione e di costruzione di una lista aperta. Questo spirito di allargamento deve rimanere nel congresso costituente e nell’idea di partito».
La battaglia comunque c’è stata, in particolare sui tempi del percorso congressuale, oltre che sulla partecipazione esterna alle primarie che ha visto contraria la candidata Paola De Micheli, alla fine astenuta. La critica più forte è arrivata da Matteo Orfini, contrario a un’agenda così dilatata: «Sei mesi dal giorno delle elezioni per fare un congresso sono una enormità». Certo, ha aggiunto, «un nome non risolve un problema ma nemmeno rifare le Agorà e chiamarle percorso costituente. La costituente e la rifondazione saranno gli anni di opposizione. Facciamo un congresso che il prima possibile ci metta nelle condizioni di farla».
Anche uno dei candidati più forti, Stefano Bonaccini, non ha gradito le scadenze stabilite, perché, ha argomentato, «non è una cosa così banale che non ci sarà un nuovo gruppo dirigente» in tempo per le regionali, anche perché «Lazio e Lombardia insieme fanno 1/4 della popolazione del Paese, non sarà facile vincere o rivincere anche per il quadro di difficoltà sulle alleanze». L’impressione comunque è che il governatore emiliano abbia parlato già da leader nazionale e infatti ha toccato molti altri temi al di là di quelli interni: il reddito di cittadinanza per esempio («non lo abolirei»), o il rigassificatore di Ravenna («utile per tutti»).
Anche Base riformista, la corrente degli ex “renziani”, ha chiesto «tempi più rapidi», come fatto da Alessandro Alfieri, convinto che sarebbe servito un arco di tempo «all'altezza della fase politica che stiamo vivendo». Dello stesso avviso Andrea Orlando, che invece avrebbe voluto una discussione approfondita sull’identità del partito, perché altrimenti «non stiamo facendo una vera costituente», ma «semplicemente un restyling che non è sufficiente».
Come detto, però, nell’intervento del segretario uscente ha dominato in particolare lo scontro con il Terzo polo dell’ex Renzi, accusato di voler fare «opposizione all’opposizione», ma è un sentimento piuttosto trasversale, tanto che anche il “veterano” Luigi Zanda ha invitato a «rispondere colpo su colpo» alle provocazioni del senatore fiorentino e di Conte, delle quali, ha detto, «dice non se ne può più».
A spingere per un Pd “in uscita” è stato invece l’ex numero uno del Nazareno, Nicola Zingaretti, secondo cui una «vera costituente del Pd », andrebbe fatta «nelle piazze» e non con «chi deve venire in maniera china ad ascoltarci». Poi la proposta per «tre giornate di mobilitazione straordinaria, per rivolgerci alle persone che ci hanno votato».