Una delle studentesse dell'istituto Arcadia di Gratosoglio che ha partecipato al laboratorio ad Opera - .
Ryan ripete che no, il carcere non se l’aspettava così. E nemmeno la barca raffigurata nella grande stanza allestita appositamente per la classe. Evoca quella affondata a Lampedusa il 3 ottobre di dieci anni fa, col suo carico di 368 vite. I ragazzi ci girano attorno e osservano gli oggetti raccolti e imbustati nella plastica: cellulari, scarpe, «una pagella che sembra la mia». Li ha portati il medico legale Cristina Cattaneo, che li ha raccolti nel suo lungo lavoro di ricerca sui naufragi nel Mediterraneo. I detenuti sono seduti poco lontano, partecipano al laboratorio in cui si costruiscono salvagenti di cartone e si tenta di mettere in parole l’emozione di una canzone di De André. Uno racconta la sua storia di morte e di dolore, la platea ascolta in silenzio: la sua, di barca, l’ha portato in carcere. Un altro spiega come la barca, dietro quelle sbarre, viene trasformata in violini grazie al progetto Metamorfosi; come ogni morte e ogni dolore possano “suonare”, per trovare un senso e farne bagaglio per gli altri. Ci sono i ricordi dei migranti affogati, i professori e i giudici, i ladri e gli assassini, ci sono i parenti delle loro vittime. E poi ci sono gli studenti delle scuole medie, che in gita – proprio così – son venuti a vedere la vita dietro le sbarre di Opera. Dove non ci sono solo la colpa, e la pena, ma qualcosa da costruire e ricostruire insieme.
Chiamatela giustizia riparativa, ma aggiungete l’ambizione di farne strumento educativo e sociale. A coltivarla, da ormai vent’anni, è il pm milanese Francesco Cajani, che per lavoro si occupa di metter dentro chi compie reati e per passione prova a ricostruire lo strappo che quei reati hanno determinato fuori. O che potrebbero determinare, se nessuno pensa di spiegare prima ai ragazzi (quelli “a rischio”, ma non solo) di che cosa stiamo parlando. È il punto di partenza del Gruppo della Trasgressione creato alla fine degli anni Novanta dallo psicoterapeuta Angelo Aparo a San Vittore, che riunisce ogni settimana nei penitenziari milanesi decine di studenti, universitari, magistrati, giudici, detenuti ed ex detenuti: «Il lavoro con lui nacque come un “patto tra macellai” – scherza Cajani -, io da buon educatore scout gli proposi uno scambio di prigionieri: carne giovane contro carne meno giovane, i primi prigionieri dei preconcetti tipici dei loro 19 o 20 anni, i secondi delle mura del carcere. In comune il desiderio di evadere, prima di tutto da se stessi, per mettersi a nudo ed essere fatti a pezzi per poi cambiare». Progetto dopo progetto, incontro dopo incontro, quell’intuizione fa strada: Cajani, insieme ad alcuni colleghi e amici (il giornalista Carlo Casoli, il criminologo Walter Vannini), incontra Libera, ne nasce il documentario “Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” che viene portato ai convegni, agli incontri con le associazioni, ai ragazzi, il carcere inizia ad aprirsi alla società e viceversa, coi familiari delle vittime di mafia che entrano per la prima volta ad Opera il 21 marzo del 2017 a leggere i nomi dei loro cari morti per mano criminale. Fino a qui, a oggi, a questa scuola - siamo alla periferia sud di Milano, quartiere difficile del Gratosoglio –, dove la “gavetta” può succedere che si faccia in carcere, i detenuti sono spesso eroi e i reati stellette da apporre alla felpa di marca tarocca, già alle medie. La linea di frontiera si chiama istituto comprensivo Arcadia: oltre la metà dei ragazzi nelle aule sono nati da famiglie straniere, oltre il 10% è costituito da minori non accompagnati e stranieri neoarrivati ( per ricongiungimenti familiari o per recente immigrazione) , 4 su 10 hanno bisogni speciali, molti provengono da famiglie in difficoltà economica. Sono anche loro ad essere entrati ad Opera, meno d’un mese fa, e oggi in classe il pubblico ministero è venuto a trovarli per chiedere loro se quella giornata li ha cambiati e come. Alice alza la mano col suo sorriso gioioso: «Ho sempre visto il carcere come un posto dove non si vuole andare, scuro, triste. E invece mi sono trovata a mio agio, sembra strano. Le storie che ho sentito raccontare mi hanno colpito».
L'interno del carcere di Opera - Fotogramma
L’incontro coi detenuti è stato emozionante anche per Simone: «A me uno di loro s’è avvicinato – racconta – e mi ha parlato dell’erba, che non calpesta da vent’anni. M’ha detto che devo capire, quanto sono fortunato, a poterlo fare io. Mi ha chiesto di non fare il suo errore». In classe si rincorrono le risatine, finché Cajani non tira fuori la lettera che si è ritrovato tra le carte di quel giorno. L’ha scritta proprio quel detenuto, dicendo «Grazie, ragazzo, che sei venuto qui. Oggi voi mi avete dato speranza, mi avete fatto toccare quell’erba con la vostra semplicità». Sentirlo dire ad alta voce lascia tutti immobili, per un istante. Poi Rebecca chiede «ma perché? Perché abbiamo fatto questa cosa?». E Cajani risponde: «Per farvi vedere coi vostri occhi che c’è luce, che c’è il verde». Oltre il carcere, oltre il male che in carcere può portare. A novembre i ragazzi potranno tornare ad Opera con le proprie famiglie per assistere al concerto dei violini e chiudere idealmente il cerchio della loro esperienza: «Non so quanti saranno, non so se a tutti questa esperienza avrà lasciato qualcosa di tangibile – spiega ancora Cajani -, ma vorremmo che questo fosse un progetto pilota, vorremmo che nelle scuole, tutte, questo messaggio arrivasse e che questa esperienza, insieme a quella del Gruppo della Trasgressione, fosse considerata dalle istituzioni come un patrimonio comune da mettere a frutto». Dove “trasgressione” sta per coraggio di riconoscere il proprio errore (dentro e fuori dal carcere), “punizione” per il diritto ad essere giustamente puniti (recuperando dignità e relazioni) e “giustizia” per il rammendo allo strappo che potrebbe e dovrebbe non consumarsi più. A scuola, prima che dietro le sbarre.