sabato 9 novembre 2024
Una regione ha il secondo tasso di fecondità più alto d'Italia e le madri più giovani, la seconda il numero di figli per donna più basso e le madri più anziane. L'economia non spiega tutto
Perché Sicilia e Sardegna sono agli opposti in fatto di nascite

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Tra i molti spunti che offre l’Italia del declino demografico ce n’è uno attorno al quale può essere utile un supplemento di riflessione, ed è la realtà delle Isole: Sicilia e Sardegna. Dal punto di vista della natalità le due regioni sono agli antipodi: la Sicilia ha il secondo tasso di fecondità più alto d’Italia, con 1,32 figli per donna, la Sardegna il più basso, 0,91 (in Italia la media è 1,2 figli e la prima regione resta il Trentino-Alto Adige, a 1,42). Come mai questa differenza? Una risposta tecnica può discendere da un altro dato che vede le due isole ancora agli antipodi: la Sicilia vanta l’età media delle madri al parto più bassa d’Italia, 31,7 anni, la Sardegna la più alta, 33,2.

È la conferma che i tassi di fecondità più bassi risentono del posticipo della genitorialità, anche se questo non spiega tutto. Ci sono questioni economiche? Il reddito disponibile lordo pro-capite è di 16.000 euro in Sicilia e di 18.000 in Sardegna; la disoccupazione in Sicilia è al 15,8%, in Sardegna al 10,1%; il tasso di occupazione è del 53,5% in Sicilia e del 62,5% in Sardegna. In un contesto di minore sviluppo rispetto alla media nazionale, e comunque di declino generalizzato della natalità, si potrebbe rilevare che il divario così netto nei tassi di fecondità dipenda da aspetti culturali, di aspettative e di fiducia nel futuro, oltre che un contesto territoriale in cui le reti informali di “cura” assumono un valore e un peso diverso. Nei servizi dal territorio, le opinioni di alcuni esperti. (M.Ca.)


Sicilia. Il senso di comunità aiuta la speranza
ma la sfida è accompagnare tutti i genitori

Roberto Puglisi (Palermo)

C’è un venticello di lieve speranza che soffia dalla Sicilia, a sentire molte delle voci che commentano le statistiche dell’Istat sulla maternità. Se il numero medio di figli per donna in Italia si attesta a 1,20, nel 2023, in Sicilia è stato pari all’1,32. Un valore che pone l’Isola al secondo posto dopo il Trentino-Alto Adige (1,42). Nella regione, oltretutto, si registra la media delle mamme più giovani: 31,7 anni.

«Siamo nel contesto generale di un calo progressivo delle nascite – spiega Girolamo D’Anneo, statistico del Comune di Palermo -. Anche la Sicilia ha avuto una traccia declinante negli ultimi vent’anni: nel 2003 il tasso di fecondità era all’1,43. Dal 2013 il calo è stato continuo, sia pure con un andamento contenuto. Siamo passati dall’1,37 all’1,32 attuale. L’Isola si mantiene nei suoi standard, comunque, in persistente e più leggera discesa. Sono le altre regioni, specialmente al Nord, che hanno rallentato di più nel secondo decennio del Duemila».

Una tenuta della natalità in cui in cui si può cogliere il contributo delle famiglie di origine straniera: «In Sicilia nel 2023, il tasso di fecondità delle mamme italiane è dell’1,29, quello delle mamme non italiane è par a 1,90, anche se si va uniformando alla decrescita in corso».

Per Salvino Leone, docente di teologia morale e bioetica alla Facoltà Teologica, bioeticista e medico ginecologo, «il discorso appare strano solo a una prima lettura. Sicuramente, qui in Sicilia, il bambino continua a rappresentare un valore nelle famiglie. Forse, tra cinque o dieci anni, ci troveremo in un altro scenario: oggi ci sono tante coppie che non vogliono avere figli. Al momento, tuttavia, non sono rari i terzi figli, con papà e mamma cinquantenni, bambini sicuramente voluti, cercati e desiderati. Siamo davanti a un segno di per sé positivo. Poi, però, bisogna pensare al “cammino” di questi bambini. Manca una vera politica nazionale di sostegno alla natalità. E non si può soltanto esortare a essere generosi e propositivi: bisogna creare le strutture che permettano di esserlo».

La questione è anche antropologica: «C’è una tendenza che rilevo, specialmente nei quartieri popolari - dice padre Gianni Notari, gesuita, teologo, sociologo, e direttore dell’Istituto Arrupe di Palermo -. È come se la maternità, anche tra le giovanissime, conferisse una identità supplementare. La nascita di un figlio, talvolta, consente l’uscita dall’anonimato, rende protagonisti. Ne traggo una lettura carica di speranza. Si assiste quasi a una resistenza rispetto alla tendenza generale, un volere esserci e una capacità di accudimento importante. In quei quartieri nascono alleanze e solidarietà. I figli di due persone diventano i figli di tutti».
E dal punto di vista economico?

«Lo sviluppo – argomenta Francesco Pira, professore associato di Sociologia all’Università di Messina – è la questione centrale. Come vengono garantiti dal sistema i bambini? Quante scuole forniranno la mensa? Di quanti servizi disporranno le famiglie? C’è un welfare familiare, con i nonni e gli zii che, insieme ai genitori, tentano di supplire alle carenze». Supporti pubblici migliori, insomma, potrebbero favorire la fiducia di fondo.

«Purtroppo – dice Carlo Amenta, economista – in alcuni contesti una percentuale maggiore di figli corrisponde a una percentuale minore di lavoro. Questa mi pare una delle chiavi di spiegazione possibili del tasso di fecondità in Sicilia: la mancanza di opportunità. Oggi, le donne devono ancora scegliere se essere madri o lavoratrici».

Il dottore Antonio Maiorana è primario di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Civico di Palermo, un centro di riferimento. Lui, come altri, verifica la situazione sul campo. «Nel reparto maternità vengono a partorire duemila mamme all’anno – dice -. In grandissima maggioranza sono palermitane. Credo vi sia una forte disponibilità sociale alla procreazione, talmente solida da superare gli ostacoli. Noto ottimismo e la voglia di un domani migliore su cui puntare».

L’ospedale sta investendo su un progetto di accompagnamento alla genitorialità. «Nel momento in cui nasce un figlio – dice il dottore Maiorana – nascono anche due genitori. Noi dobbiamo occuparcene e lo facciamo in collaborazione con gli psicologi dell’Università».

Nella trama delle esperienze, si innesta una storia singola che non riguarda le statistiche, ma rafforza il profilo di una speranza già tratteggiata: «Tra le tante donne che abbiamo aiutato – ricorda il primario – non dimenticherò mai, in particolare, una ragazza ventenne originaria del Centro Africa. Aveva conosciuto la migrazione, con le sue violenze, ed era stata letteralmente pescata e salvata nel Canale di Sicilia, dopo l’affondamento del barcone. Da noi ha portato a termine la sua gravidanza, è stata inondata di affetto e attenzione. Ho sempre qui davanti a me i suoi occhi splendenti mentre ripeteva che aveva trovato, finalmente, amore e comprensione e che non voleva andare più via».


Sardegna. Pochi servizi e un futuro di incertezze
Il desiderio di famiglia resiste a fatica

Mario Girau (Cagliari)

Il basso tasso di fecondità - 0,91 figli per donna (sceso da 0,95 nel 2022) contro una media nazionale di 1,20 - sembra dire che in Sardegna interessi poco diventare genitori. In pratica le 4,9 nascite ogni mille abitanti (contro una media nazionale 6,7) starebbero lì a confermare la distanza dei giovani sardi dalle culle. Eppure non è così.

La realtà dice che la crisi deriva in gran parte dal tentativo fallito di offrire quella ricetta che - a parere di sindacati, economisti e operatori sociali - rappresenterebbe la cura più efficace contro la denatalità: casa, lavoro, servizi. Senza questo trinomio, il matrimonio e i desideri di generatività diventano un salto nel vuoto senza paracadute, che le coppie, soprattutto le donne, non vogliono fare. Accentuando così l’inverno demografico: in 8 anni la Sardegna ha perso 88 mila abitanti, di cui 8.314 solo l’anno scorso, un comune di media grandezza per l’Isola.

«Le donne sarde - dice Tiziana Putzolu, Consigliera regionale di parità, sociologa del lavoro - non vogliono trasferire al nascituro l’incertezza di un’occupazione instabile e precaria, legano le loro scelte procreative alla sfera economica. In casa almeno uno stipendio deve essere sicuro, sufficiente a mantenere papà, mamma e bambino. Rispetto al passato, inoltre, per le ragazze sarde la maternità non è la prima preoccupazione/desiderio di vita. Ve ne sono altre: lavoro, affermazione professionale e sociale, libertà e autonomia».

Secondo il Comitato Regionale Emigrazione e Immigrazione (Crei) Acli, che ha dedicato un report specifico a spopolamento e denatalità, «la Sardegna ha bisogno di un’efficace politica di sostegno alle nascite, che non può esaurirsi in un contributo dato a posteriori per un dato numero di anni», dice Mauro Carta presidente delle Acli. «Andrebbero introdotte misure concrete a supporto della genitorialità e delle famiglie, per il miglioramento dell’equilibrio tra vita professionale e lavorativa. Tali misure dovrebbero essere strutturali, ovvero capaci di offrire un orizzonte di medio periodo ai futuri genitori e soprattutto alle future mamme. Occorre sfruttare la tendenza positiva del ritorno dei cittadini stranieri, offrendo soluzioni affinché possano stabilirsi nell’Isola. Tuttavia, è necessario attuare misure che attraggano famiglie con figli o persone giovani che vogliano costruirsi una famiglia in Sardegna. Le diverse comunità straniere hanno caratteristiche ed esigenze diverse: ecco perché si avverte la necessità di una varietà di iniziative e politiche mirate a rispondere efficacemente ai bisogni delle differenti comunità, che possono essere fatte conoscere e promosse anche attraverso il coinvolgimento delle comunità sarde e dei circoli sardi all’estero».

«Bisogna anche tener conto - aggiunge la Consigliera di Parità - del progressivo invecchiamento della popolazione. La Sardegna è all’ultimo posto tra le regioni in Italia per popolazione tra 0 e 14 anni: solamente il 10%, rispetto alla media italiana del 16,7. Le femmine tra 18 e 44 anni (cioè in età fertile) sono solamente il 26,68% (le donne sarde sono in tutto 803 mila) la stessa percentuale degli over 65 residenti nell’isola, che sono il 26,22%. Molto gioca contro la natalità, compresa l’età media (48 anni) e indice di vecchia. La fascia tra 18 e 34 anni si assottiglia e arriva i minimi storici. Negli ultimi vent’anni si è ridotta del 39,8%, in numeri assoluti si tratta di 166mila in meno, come se una città grande come Sassari fosse sparita. A questo deve aggiungersi che per le donne sarde l’età della prima maternità si è spostata sempre più avanti, fino a 33 anni e due mesi, il più alto in Italia».

Dalla Sardegna si “fugge” perché sono rare le opportunità di lavoro, carriera e guadagno. I giovani, i futuri genitori, lo sanno e fanno le valigie. Tra il 2011 e il 2023 quasi 13 mila studenti tra 18 e 34 anni (diplomati e laureati) sono andati o tornati dall’estero. L’anno scorso hanno fatto le valigie verso altre regioni italiane ed europee 1.447 uomini e 1.239 donne. Molti non torneranno se non per trascorrere un periodo di vacanza nei mari della Sardegna.

La conferma viene da un report della Cna sugli studenti iscritti nelle due università sarde. Erano 47.464 nell’anno accademico 2010/2011, sono diventati 35.842 nel 2021/2022. È invece cresciuto il numero di sardi iscritti in università di altre regioni: da 6.040 a 7.184 (1.144 studenti in più).

«Condurre una esperienza di studi fuori dall’Isola non è necessariamente un fattore negativo - commentano i dirigenti della Cna - ma a patto che sul fronte interno si lavori per creare le condizioni propizie per favorire il rientro, valorizzando nel tessuto produttivo locale l’esperienza specialistica acquisita fuori». Che poi sono le premesse per creare una famiglia e mettere al mondo figli.

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