Uno scorcio del Parco Verde a Caivano (Napoli) - Pino Ciociola
Strade che si svuotano, finestre che si chiudono. Succede qualcosa di strano quella sera, partono anche messaggi sui cellulari, non ce n’è motivo, non sta accadendo nulla. Eppure in uno di quei messaggi, vocale, si sente dire: “All’improvviso il deserto, tira un’aria, non so che dirti, è qualcosa che si percepisce, ho paura di affacciarmi…”. Pochi minuti. Alle nove meno venti nel Parco Verde di Caivano entrano dieci moto, qualcuno ne conta dodici. Le cavalcano, a due a due, ragazzini, meno di vent’anni, tutti, uno a torso nudo. Chi siede dietro ha il mitra in mano. Senza fermarsi, senza prendere la mira, prendono a spararsi intorno, ad altezza d’uomo, alcune macchine parcheggiate sono bucherellate dai proiettili. Poi silenzio. Poi paura. Un mese dopo, e dopo altri spari, non se n’è ancora andata. Una stesa in piena regola, l’8 luglio scorso, un mese fa. Ma sanno tutti cosa accade o almeno sa chi dovrebbe e potrebbe fermarla: c’è una guerra. E come in ognuna, pagare il prezzo più alto tocca ai più deboli e ai giusti.
Nel Parco vivono più o meno seimila persone. Molte - si dice un migliaio - sono roba della camorra. Molte altre, di più, è gente povera e col cuore. Che, per mostrare riconoscenza, in strada ti ferma, apre la sua borsa e ti regala un santino spiegazzato e consunto, che stava lì dentro da una vita ed è fra i suoi beni più preziosi. Il Parco nel frattempo è una specie di gran centro commerciale, a cielo aperto, dove traboccano droghe, drogati e droghieri. E per questi ultimi gli affari viaggiano a molti zeri. Naturalmente, ci mancherebbe, tutto controllato e gestito da signora camorra. Nessun segreto.
Racconta la Direzione nazionale antimafia, giusto nella sua ultima Relazione annuale, che “nel comune di Caivano, dalla metà degli anni 90 - si legge - si formarono due grossi schieramenti criminali contrapposti tra loro: da un lato quello dei cosiddetti paesani, delinquenti autoctoni, già legati alla nuova camorra organizzata e capeggiati da Natale Salvatore detto zuopp (ucciso nel corso di un agguato) e da Marino Giuseppe detto Peppe ‘o biondo (ora collaboratore di giustizia), dall’altro i cosiddetti napoletani (emigrati e trapiantati nel Parco Verde di Caivano dopo il terremoto del 1980), capeggiati da Russo Alfredo (ora collaboratore di giustizia), Sautto Nicola, ad oggi recluso, e dai fratelli Ciccarelli Domenico, Antonio e Massimo, i primi due detenuti ed il terzo deceduto in seguito ad un agguato camorristico”.
Schermaglie, poi, dopo “un cruento scontro armato” - continua la Dna -, i napoletani “ebbero la meglio ed assunsero il controllo criminale di Caivano, egemonia che, al netto delle interruzioni dovute ai provvedimenti giudiziari via via succedutisi, perdura a tutt’oggi ad opera del clan Sautto-Ciccarelli”. I settori preferiti sono i soliti, conferma la Direzione nazionale antimafia: “Le estorsioni a commercianti e imprenditori - scrive -, soprattutto il fiorente traffico di sostanze stupefacenti, che nel comune di Caivano e specificamente nel Parco Verde ha raggiunto una tale espansione, per quantità di stupefacente smerciato, soggetti coinvolti e ricavi economici, che risulta essere una delle piazze di spaccio più grandi della regione”.
In realtà nel Parco la guerra, appunto, è ripresa. Da quando è stato scarcerato dopo una trentina d’anni un boss caivanese, ex cutoliano, che s’è messo in testa di conquistare il quartiere caivanese (con relativo mercato della droga), ha reclutato certi ragazzetti fuori di testa, appassionati di coca e con la pistola sempre infilata nei pantaloni dietro la schiena e si è dato da fare. A proposito, qui nel Parco sono anche arrivati parecchi ‘scissionisti’ di Scampia, che aveva troppo riflettori puntati, e hanno preso a fare affari qui. Naturalmente con una certa stizza del gruppo di vecchi gran ciambellani locali, già mezzo decapitato da una grossa retata parecchi mesi fa. E le stese sono una dimostrazione di forza. Servono a marcare il territorio. Del resto che le cose siano cambiate e gli equilibri criminali stiano ballando lo mostrano anche le parole. Qui una volta si usava ‘famiglie’, adesso si usa ‘clan’. Da un po’ si usa, mai sentito prima, ‘mettere le cose a sistema’. E via dicendo. Terminologie che per chi non conosce il Parco significano nulla, parecchio per chi ci vive.
Cosa accadrà? Ovvio possa scapparci il morto. Se apparterrà ai belligeranti, magari uno sacrificabile della manovalanza di camorra, non succederà niente di particolare. Se sarà innocente, il Parco verrà blindato. Lo è già stato dopo la stesa dell’8 luglio ed è durata una settimana, con auto delle forze dell’ordine ogni duecento metri, che poi non si sono più viste. Fra l’altro con una sfida aperta: una sera, durante la ‘blindatura’, sono stati esplosi tre colpi di pistola proprio nel cuore del Parco. Come a dire “siamo qui, non ci fate paura, comandiamo noi”.
Il Parco è abbandonato a se stesso da sempre. Lo Stato latita, anzi non ce n’è neanche l’ombra. Siamo entrati in macchina, abbiamo fatto un giro, dopo un paio di minuti avevamo un ragazzino sul motorino attaccato dietro. Rallentavamo, rallentava. Allungavamo, allungava. Non più di venticinque anni. Funziona così qui, nulla di speciale o esclusivo: qualcuno aveva “avvisato" ci fossimo e una vedetta è arrivata per controllarci, senza casco, né problemi a farsi vedere venirci dietro.
Se lo Stato va d’altre parti, se da qui va via anche chi può farlo (e le case popolari liberatesi le assegna la camorra), il Padreterno non si volta: l’unico presidio di tenerezza e speranza è la parrocchia, sebbene spaccino e sparino a quattro passi e a due vivano mezze tacche e quasi boss. Accanto anche a quella gente che cuore e dignità li ha, onestamente povera. Don Maurizio Patriciello, il parroco, il giorno seguente quella stesa ha chiuso in fretta furia il campo estivo per i bambini: “Non è possibile andare avanti dopo quello che è successo”. Ha paura per i più piccoli, già costretti a crescere lì senza colpe e senza, appunto, Stato. Ha ragione.