La musica era la grande passione di Nasser Musa Warzmat Abdullah. Amava cantare e suonare alla chitarra i brani di Jimi Hendrix, Carlos Santana, Bob Marley. «Spesso lo accompagnavo, anche io suono. O, meglio, suonavo – racconta Modogaz Musa –. Da quel giorno, non riesco nemmeno più a guardare una chitarra: mi ricorda mio fratello, la sua morte assurda e fa troppo male». Il 29 novembre 2018, il fuoristrada su cui viaggiava il 34enne Nasser è stato colpito dal missile di un drone Usa in prossimità del villaggio di al-Awaynat nel sud-est del deserto libico. Con lui sono morti altri dieci uomini di età compresa tra i 25 e i 45 anni, tutti appartenenti alla comunità tuareg e provenienti da Ubari, distante un centinaio chilometri. Il giorno successivo, lo United States Africa Command (Africom) ha annunciato pubblicamente di avere compiuto «un raid aereo ad alta precisione che ha ucciso undici terroristi di al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi) e distrutto tre veicoli». Gli ospedali della zona hanno rifiutato di esaminare i corpi e di rilasciare il certificato di morte a dei caduti tanto ingombranti. Privati dei documenti, i loro resti carbonizzati hanno dovuto essere sepolti in una fossa comune. Morti anonimi, senza corpo né tomba. A sottrarli all’invisibilità è stata la pronta mobilitazione di familiari, amici e vicini, decisi a confutare la “verità ufficiale”. Quattro anni e moltissime marce, lettere, appelli, proteste, incontri istituzionali dopo, la loro battaglia nonviolenta ha portato a una denuncia internazionale depositata giovedì alla Procura di Siracusa dall’European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr), da Reprieve e dalla Rete Italiana Pace e Disarmo.
LA VICENDA
Dopo 4 anni di proteste, la denuncia internazionale alla Procura di Siracusa di Ecchr, Reprieve e Rete disarmo: «11 innocenti» Italia accusata di complicità in un’azione illecita
Una vicenda controversa Sono molti i punti oscuri della vicenda. In primis, la presunta affiliazione delle vittime ad Aqmi. Lo stesso braccio africano di al-Qaeda lo ha “smentito categoricamente” con un comunicato del 5 dicembre 2018. Sette degli uccisi – Musa Ala Tuni Mohamed, Ighias Akhreeb Aksasooni, Al Mahmoud Ayoub Ibrahim, Hassan Mohammed Abu Baker al Sagheer, Eyad Mohammad Ighali Mohammed oltre a Nasser Musa – del resto, come dimostrano i documenti a cui Avvenire ha avuto accesso, lavoravano per le forze armate del Governo di accordo nazionale, riconosciuto e alleato dell’Occidente nella lotta contro il Daesh che, all’epoca, cingeva nella morsa la Libia. Altri due – Ibrahim e Ahmed Umla Mohammed Fono – si stavano addestrando per entrarvi. Nasser Abdullah era stato guardia di sicurezza dell’allora premier Abudallah al-Thani mentre Musa Mohamed, nel 2016, aveva combattuto, insieme agli Usa, per espellere il Califfato da Sirte. Gli ultimi due uccisi – Ahmed Kober al-Khadeer e Jumma Akhreeb – erano un docente e un educatore. «Dalle indagini effettuate sul campo, dall’analisi dei documenti, dalla raccolta di testimonianze, possiamo dire con certezza che si trattava di undici innocenti, colpiti mentre battevano il deserto alla ricerca di rottami di veicoli da rivendere», spiega Jennifer Gibson, avvocata di Reprieve. «Lo facevano per sfamare le proprie famiglie: il conflitto prolungato aveva bloccato il turismo, fonte di sostentamento delle comunità tuareg – aggiunge Francesca Cancellaro avvocata delle tre Ong –. I magri salari non erano sufficienti in un momento di enorme crisi. La loro morte, tra l’altro, ha lasciato mogli e figli privi di sostentamento ».
Omicidi mirati e dubbi legali Rendere giustizia alle vittime è la priorità, sostengono le organizzazioni denuncianti. Il caso – inedito per il nostro Paese –, tuttavia, ha implicazioni più ampie: rischia di aprire il “vaso di Pandora” dei fondamenti giuridici della “guerra al terrore”, dichiarata dagli Usa dopo l’attacco alle Torri gemelle. Un conflitto globale portato avanti in gran parte e con slancio crescente dalle ultime quattro Amministrazioni mediante i “ targeted killings” o esecuzioni mirate da parte di velivoli senza pilota. Arma quest’ultima sdoganata da George W. Bush che ordinò il primo raid, a Khost, in Afghanistan, il 4 febbraio 2002. E divenuta “strategica” durante la presidenza di Barack Obama. «Per questo, il caso di al-Awaynat è tanto importante. Se procedesse, potrebbe dimostrare l’illegalità del programma di “ targeted killings”– sottolinea Gibson –. E rappresenterebbe un messaggio potente per gli Stati che lo supportano. A partire dall’Italia».
L’Italia è coinvolta? Già l’Italia. Perché i denuncianti sostengono che il raid del 29 novembre 2018 sia partito dalla base di Sigonella, impiegata normalmente da Africom nell’ambito della campagna aerea anti-Daesh “ Odissey lightning” per liberare Sirte. L’operazione si è conclusa nel dicembre 2016. I raid in Libia, però, sono continuati, come sostengono New America e Airwars e dimostra lo stesso comunicato di Africom del 27 aprile 2020. Il giorno dell’attacco, Italmiradar, organizzazione che traccia il traffico aereo, ha segnalato un volo andata e ritorno di un drone Global Hawke da Sigonella verso la zona in cui si trova al-Awaynat. Testimonianze e analisi del terreno indicherebbero, poi, che là il velivolo sia arrivato da nord. Le uniche altre due basi Usa nella regione – la 101 di N’Djamey e la 201 di Agadez, entrambe in Niger – sono a sud. «La prima, inoltre, è un’ora più distante rispetto a Sigonella e non ci sono prove che sia stata impiegata in precedenza per i raid sulla Libia.
La seconda, invece, più vicina, è stata attrezzata con droni solo un anno dopo», afferma Gibson. Se, effettivamente, il drone è partito dalla Sicilia, le organizzazioni accusano l’Italia di aver partecipato ad un’operazione illecita. Nel 2018, “ Odissey lightning” era finita, dunque, gli Usa non erano più direttamente coinvolti nel conflitto libico. Le loro azioni, pertanto, andrebbero collocate non nell’ambito del diritto di guerra bensì di quello dei diritti umani e di quello penale. I requisiti perché un “ targeted killings” al di fuori di un conflitto armato sia legittimo – scrive Chantal Meloni, professoressa di Diritto penale internazionale all’Università Statale di Milano negli atti del convegno all’ateneo milanese del 2019, come aveva già affermato sulla rivista de il Mulino nel 2013 – sono stringenti: necessità di scongiurare una minaccia imminente e di salvare vite umane da un attacco illecito per cui si rende indispensabile l’impiego della forza letale. «Non è il caso di al-Awaynat», dichiara Cancellaro. Pertanto, il raid, secondo la denuncia, è «illegittimo sotto il profilo del diritto nazionale e internazionale ». L’esposto vuole accertare le responsabilità dell’Italia, a cui l’accordo del 2006, sull’impiego della base di Sigonella da parte degli Usa, attribuisce un ruolo di garanzia e correlati poteri di intervento per impedire eventuali illeciti Usa. «La disputa legale si profila complessa – conclude Cancellaro –. Ma le prove della palese violazione del diritto alla vita di undici persone sono il primo necessario passo nella giusta direzione: giustizia per le undici vittime e la loro comunità. Il caso, inoltre, potrebbe costituire un importante precedente per impedire che il dramma si ripeta nel contesto della cosiddetta “Guerra dei droni”».