Fatimah Hossaini (nella foto a sinistra), 28 anni, fotografa ed artista afghana, sul volo militare che l’ha portata via da Kabul. Accanto a lei un’amica in lacrime, distrutta dal dolore. Attorno alle giovani, la disperazione di altri passeggeri - .
«A bordo eravamo tutti sconvolti, a pezzi, come in frantumi, ed esausti visto che molti di noi attendevano all’aeroporto da tre giorni o più. La maggior parte dei passeggeri non aveva più energie nemmeno per aprire bocca e parlare. Qualcuno ha pianto. Molti si sono addormentati». Così descrive l’esperienza del volo che l’ha portata via da Kabul, Fatimah Hossaini, 28 anni, fotografa ed artista afghana, ex docente in un’università della capitale. Dopo tre tentativi di raggiungere lo scalo, alla fine ce l’ha fatta. «È stato orribile vedere la mia gente in quelle condizioni, famiglie intere con i bambini lottare per farsi largo, e i combattenti taleban lì a trattener- le, armati. Li ho visti picchiare anche le donne».
Fatimah è riuscita ad imbarcarsi su un volo militare francese e, dopo uno scalo ad Abu Dhabi, è giunta a Parigi il 22 agosto. Ora, nell’hotel dove gli evacuati trascorrono la quarantena Covid, ha tutto il tempo per realizzare cos’è accaduto. «Prepararsi per andare via è stato straziante. Non riesco a smettere di pensarci », dice al telefono, il tono di voce cupo. Dal 2018, da quando era rientrata dopo anni all’estero, si era sistemata in una casa tutta sua. «In un attimo, la vita è cambiata di nuovo. Sono andata via con una piccola valigia e uno zaino, la macchina fotografica, il pc, i miei scatti nell’hard disk, le cose importanti. Ho lasciato tutto il resto, comprese le stampe pronte per la prossima mostra di New York».
Era tornata nel suo Paese perché sentiva la «responsabilità di mostrare un’altra immagine dell’Afghanistan, una di cui essere orgogliosi, quella della bellezza, pur nel mezzo della guerra», diceva qualche mese fa. Nelle sue immagini, visi magnetici di donne bellissime, abbigliate con sgargianti abiti secondo le diverse tradizioni del Paese, ma in pose inaspettate, capaci di infrangere tabù e cliché che dipingono le afghane come vittime, sempre deboli. Le sue erano «donne piene di grandi speranze, di resistenza». «Due giorni fa ho saputo che le mie colleghe di università sono state mandate via dall’ateneo», racconta, e aggiunge che fino al mattino del 15 agosto la vita a Kabul pareva quasi normale: «La sera prima ero uscita a cena con amici. La mattina successiva, dovevo raggiungere una clinica per un test Covid perché avevo un volo per la Turchia. Ho cercato un taxi, ma un tassista mi ha detto di rientrare a casa perché i taleban erano alle porte della capitale. Non gli ho dato retta, ma poi la gente ha iniziato a correre e urlare. Dal mio balcone ho visto i combattenti sulle moto, con le loro bandiere».
Rifugiatasi da una famiglia di amici, ha inviato email, chiamato ambasciate e Ong con cui ha collaborato, per trovare un modo di andare via. Quando è giunto il momento, se ne è andata «con un bagaglio troppo piccolo, in cui non ho potuto mettere né i miei sogni né le mie aspirazioni. Tutto quello per cui ho lottato e per cui le afghane hanno combattuto non può trovare posto in una valigia così piccola. È davvero difficile oggi parlare di bellezza, perché la bellezza che in Afghanistan ho visto e mostrato con i miei lavori non c’è più. Questo ora è solo un Paese di esplosioni e tragedie quotidiane».