Elena Borghi con il papà Giuseppe, primo medico morto durante l’epidemia, nel giorno della laurea - .
«Non si è mai fatto problemi a restare ben oltre l’orario di ambulatorio, se qualche paziente lo chiamava per chiedergli di aspettarlo. Ci è sempre stato per tutti, senza gesti eclatanti ma vivendo giorno dopo giorno il suo lavoro con impegno e abnegazione».
Elena Borghi parla del papà Giuseppe con la voce ancora incrinata dal dolore. Lei è una specializzanda in chirurgia pediatrica a Padova, lui il primo medico di base caduto – a 64 anni – nella battaglia contro il coronavirus, contagiato mentre svolgeva il suo servizio all’ambulatorio di via Marsala a Casalpusterlengo, Comune della “zona rossa” lodigiana. Il dottor Borghi – casalese doc – l’aveva aperto nei primi anni Ottanta, dopo la specializzazione in scienze dell’alimentazione. Aveva avuto la possibilità di trasferirsi a Piacenza, dov’era andato a vivere dopo il matrimonio con Daniela.
Una distanza minima, di 15 chilometri, ma di certo avvicinarsi a casa l’avrebbe aiutato a conciliare gli impegni e la famiglia appena formata. «Non l’ha mai sfiorato il pensiero di lasciare i pazienti – sottolinea Elena –. Si era affezionato a loro e loro a lui». Non era solo empatia. La gente ne apprezzava la competenza. «In tanti, anche dopo una visita dallo specialista, tornavano a chiedere il suo parere». Era però uomo riservato, che non si crogiolava negli elogi. Dello spessore del suo papà in quanto professionista Elena si è accorta solo durante una breve sostituzione in studio. «Ho capito di quanta pazienza fosse capace, dall’ascoltare la signora anziana che per la centesima volta viene a raccontarti gli stessi acciacchi a chi invece ha un problema serio da affrontare. Glielo avevo anche detto: “papà, io non ne sarei in grado”.
Lui sorrideva: non lo riteneva una dote straordinaria, ma un elemento indispensabile del suo essere medico di famiglia. Le relazioni per lui erano qualcosa di sacro». Del resto, un amico sacerdote gli aveva ricordato: «Giuseppe, il tuo lavoro è già una preghiera». Quando, un mese fa esatto, da Codogno è partito l’allarme coronavirus, il dottor Borghi ha intuito subito che quelle due linee di febbre che da un paio di giorni lo infastidivano potevano essere indice di qualcosa di più. «Ha voluto proteggerci, si è isolato, era preoccupato per noi, per mio cognato e mia sorella, che da poco hanno avuto una bambina », dice Elena. All’inizio si è curato da casa, attendendosi alle indicazioni dei colleghi alle prese con un virus ancora sconosciuto nelle possibili evoluzioni. Ricoverato a Piacenza per complicazioni polmonari, è stato quindi trasferito a Bologna in terapia intensiva, dove è spirato l’11 marzo.
Adesso Elena è a sua volta in attesa di avere il responso del tampone. «Non si sentiva un eroe – puntualizza –. Era un bravo papà, un bravo marito, un bravo medico: tutto qui. Solo ora mi rendo conto quanto sulla mia scelta di studiare medicina abbia influito vederlo sempre motivato, sereno, col desiderio di fare al meglio il suo dovere».