«Sono tutti alleati di Assad, credetemi», balbetta il vecchio a cui in tre mesi non hanno torto neanche un capello. Per quel rispetto che anche gli sbirri balcanici portano almeno agli anziani. «Sta zitto. Il fiato ti serve per camminare. E di tempo per seppellirti non ne abbiamo», gli risponde il figlio trentenne che invece ha tanti lividi quanti capelli diventati grigi durante una di quelle fughe che ci vorrebbe un Omero a raccontarle. Una marcia con al seguito due gemellini maschi di tre anni e una moglie così bella che il marito ha dovuto farsi picchiare più volte per proteggerla dalle “perquisizioni” dei turchi, dalle occhiate dei bulgari e dalle intenzioni dei trafficanti macedoni. Sempre loro. «Sono una maledizione, ma non possiamo farne a meno», dice il giovane capofamiglia. «Non sappiamo che strada fare, come superare i controlli, come attraversare i valichi. Perciò li paghiamo. Senza i banditi non abbiamo speranza di farcela». La chiave del business dei profughi è tutta qui. Niente fermerà un padre che vuole mettere al sicuro la famiglia. «Non pensavo che l’Europa fosse questa». E lo dice indicando le scarpe sformate che porta ai piedi. Di colore e misure diverse, le ha raccattate qua e là. «Le mie si sono rotte in Turchia e i soldi rimasti ci servono per arrivare in Germania, o in Italia, o in Francia, o dovunque non ci sparino». Non era questo che sognavano per i loro bambini. «Piangono ogni giorno. Hanno paura di qualsiasi faccia sconosciuta. Se vedono un poliziotto si aggrappano e tremano». Intanto, alla stazione degli scassati bus di Kumanovo d’improvviso arriva un uomo che parla inglese. In pochi comprendono quello che dice, ma tutti capiscono di cosa si tratta. La fasciatura intorno alla testa e la maglietta sporca di sangue fanno di “Gamaal l’afghano” l’attrazione del giorno. Perché Gamaal, arrivato in città a luglio, era sparito e tutti pensavano fosse in Serbia oppure già in Austria. «Invece sono stato rapito da quei due che mi avevano promesso un passaggio sicuro fino a Vienna». Per giorni è stato picchiato e minacciato di morte. Dopo avergli preso 300 euro con la promessa di un viaggio finalmente tranquillo, lo hanno imprigionato in un casolare, ordinandogli di chiamare la famiglia, che vive in un villaggio rurale vicino Kandahar. Chiedevano di farsi mandare almeno mille dollari attraverso un money transfer. Poi l’avrebbero rilasciato. Ci sono volute sevizie e lacrime perché i quattro capissero che Gamaal e i suoi avevano oramai dato fondo a ogni risparmio, pur di consentire al figlio di sfuggire ai talebani e guadagnarsi da vivere in Europa. Alla Croce Rossa gli hanno bendato la testa, ma Gamaal non ha più i documenti, né il cellulare e neanche un soldo. Il vecchio siriano, intanto, sembra disinteressarsi al caso. E riprende a sentenziare. «Non sapevo che la Macedonia fosse alleata del porco. Altrimenti perché ci battono la schiena? Adesso dicono che anche in Ungheria non ci faranno passare e che ci possono imprigionare. Anche loro devono essere in affari con il porco. Per forza, devono avere qualche accordo con lui, ma non lo dicono». È ad Assad che allude. «Per forza, altrimenti ci lascerebbero andare», insiste. Anche stanotte dormiranno all’aperto. All’alba tenteranno di raggiungere Belgrado. «Dicono sia una bella città. Magari hanno bisogno di un dentista. Potremmo fermarci e ricominciare da lì. Siamo stanchi. L’Europa che sognavamo è ancora lontana».