Armando Spataro - Ansa
La prima organizzazione a rompere gli indugi è stata Medici senza frontiere. «Siamo pronti a salpare domani da Augusta per tornare a navigare nel Mediterraneo con la Geo Barents» ha detto l’Ong, nelle parole del capomissione Juan Matias Gil. «Salvare vite umane è il nostro imperativo» mentre «la strategia del governo ha l’obiettivo di ostacolare le attività di ricerca e soccorso». Il giorno dopo, il decreto Piantedosi ha provocato ribellioni e proteste nel mondo della società civile. Tutto come da attese, peraltro. Lo stop ai soccorsi plurimi, il divieto di trasbordo e la richiesta d’asilo a bordo sono punti inaccettabili per chi fa salvataggi in mare. Così, dopo Msf, è stata Sea Eye a contestare il provvedimento. «Non seguiremo alcun codice di condotta illegale o qualsiasi altra direttiva ufficiale che violi il diritto internazionale o le leggi del nostro Stato di bandiera, nel nostro caso la Germania. Rifiutiamo questo cosiddetto codice e ci aspettiamo che il governo tedesco ci protegga» ha affermato Annika Fischer, membro del consiglio di amministrazione dell’organizzazione. E già si invoca, da più parti, la “disobbedienza civile”. (D.M.)
«Davanti all’ultimo dei decreti sicurezza, non resta che rispolverare “la disobbedienza civile”» Come membro del Comitato per il soccorso in mare e finanziatore dell’acquisto di una nave, «sono convinto che non serve alcuna autorizzazione per salvare vite». Le parole di Armando Spataro sono macigni. Già procuratore capo a Torino, da procuratore aggiunto a Milano ha condotto e portato a termine, fino a condanne definitive, alcune delle più scottanti inchieste sul terrorismo e la criminalità internazionale, comprese le violazioni dei diritti umani commesse dai servizi segreti occidentali.
Qual è il suo giudizio sul “codice di condotta” per le organizzazioni di soccorso in mare?
Fermo restando che ogni commento potrà essere più preciso quando disporremo di un testo ufficiale, non posso non esprimere meraviglia davanti all’uso della decretazione d’urgenza per colpire le Ong. Parliamoci chiaro: questo può definirsi, senza se e senza ma, come “decreto anti-ong”. Perché interviene senza neanche rinforzare le attività di soccorso che competerebbero allo Stato, ma segue una via populista con lo scopo di limitare le attività umanitarie, per l’ennesima volta in nome della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, che però non c’entrano nulla.
Eppure il governo sostiene il contrario: regolamentare le Ong anche per tenere in sicurezza i territori.
Non c’è mai stata una sola volta in cui le ipotesi più fantasiose (dal rischio terrorismo alla presunta connessione tra Ong e trafficanti) siano state provate. All’inizio si diceva che questa iniziativa del governo sarebbe intervenuta anche su altri campi, invece lo fa solo contro le organizzazioni umanitarie. Si vuole esclusivamente limitare l’intervento di chi vuole salvare vite umane, addirittura vietando i trasbordi delle persone soccorse. E si vorrebbe che le istituzioni e i cittadini di una democrazia si facessero semplicemente spettatori di una tragedia.
Nel “decreto Piantedosi” viene esclusa la sfera di intervento penale, preferendo la via delle sanzioni amministrative. Perché?
Già in passato vi sono stati provvedimenti che contemplavano enormi sanzioni amministrative, anche più pesanti di quanto non si faccia adesso. Ora però si tenta di scavalcare la competenza giudiziaria. Ed è un controsenso che mostra le reali intenzioni. Se si crede che le Ong commettano dei reati, allora dovrebbe essere la magistratura a intervenire con opportune indagini. Invece si sceglie la strada della sanzione amministrativa e la delega al prefetto, per ottenere ciò che sta a cuore a una certa destra: limitare se non addirittura bloccare le Ong.
Domanda al giurista: ravvede nel decreto profili di incostituzionalità?
Non c’è dubbio. Penso ad esempio al divieto di salvataggi plurimi. Proviamo a immaginare una nave che ha salvato dei naufraghi, riceve l’assegnazione del porto sicuro e mentre si dirige verso lo scalo indicato apprende di un altro naufragio. Secondo il decreto non potrebbe intervenire, abbandonando i naufraghi al loro destino, ma incorrendo in una clamorosa violazione del nostro codice penale, che impone il dovere di intervenire e semmai punisce chi vi si sottrae.
Scompare anche l’obbligo per le autorità di indicare il porto sicuro più vicino.
È un’altra delle anomalie. Le norme nazionali e internazionali sono chiare: il salvataggio si conclude quando i naufraghi sbarcano nel porto sicuro più vicino, ma qui lo scopo è tenere le Ong il più lontano possibile dall’area di soccorso. Tutto questo cosa c’entra con l’asserita volontà di voler intervenire per la tutela della sicurezza pubblica?
Altro punto controverso: i naufraghi dovranno manifestare l’interesse a chiedere asilo a bordo della nave di soccorso. Potrà funzionare?
No, per ragioni pratiche e di diritto. Il fatto che si possa prevedere una procedura d’asilo sulle navi, dando per scontato che a occuparsene debba essere lo Stato di bandiera, è priva di qualsiasi base giuridica ed è stata già bocciata dalle corti internazionali. E il ragionamento di fondo è falso: si vuol far credere che le navi Ong siano un fattore di attrazione.
Cosa bisognerebbe fare?
Intanto, ma non è una questione solo italiana, sorvegliare sull’uso che viene fatto dei fondi alla Libia. Se è vero che occorre sostenere anche economicamente gli Stati da cui salpano migranti, e in teoria non c’è nulla di sbagliato, occorre però sapere che fine fanno quei soldi. Ma non c’è un vero controllo e gli aiuti economici servono spesso a favorire la corruzione e non a favorire il potenziamento dei diritti.