Uno degli educatori che lavorano alla casa Don Camminati di Piacenza - Collaboratori
Il più fortunato ha un contratto di sei mesi, che scade a fine agosto. Gli altri, di tre. Ma si è arrivati anche a rinnovi di 15 giorni in 15 giorni. Da novembre la casa Don Paolo Camminati nella parrocchia di Nostra Signora di Lourdes, a Piacenza, è diventata un piccolo osservatorio delle contraddizioni che popolano il mondo del lavoro nel settore logistica.
Il progetto nato in sinergia con la Caritas diocesana da un’intuizione dell’ex parroco – l’ultimo, prima che il Covid se lo portasse via a 53 anni nel marzo 2020 – ospita al primo piano della canonica un appartamento per lavoratori precari, quelli che un’occupazione ce l’hanno, ma non si possono permettere un alloggio.
Sono i cosiddetti working poor, fenomeno che la provincia emiliana ai confini con la Lombardia ha visto crescere progressivamente negli ultimi anni, complice il boom della logistica che attira qui tante persone da tutta la penisola. Il Rapporto Piacenz@ Economia presentato a luglio ha tracciato la consistenza dell’occupazione nel comparto, che vale 15mila addetti nel 2021. Vero è che tra questi ci sono anche laureati e professionalità di vario genere (l’istituto tecnico industriale cittadino dal 2018 ha varato la scuola biennale per formare periti della logistica e dei trasporti), ma nel mare magnum di magazzinieri, facchini, driver, addetti delle pulizie c’è anche quella sacca di vulnerabilità che si aggiunge alle povertà generate dalla pandemia, sfidando i territori a percorrere nuovi percorsi di risposta al bisogno.
La casa Don Camminati è il primo centro sorto a Piacenza espressamente con questo scopo. Finora, ha accolto sette persone, tutti uomini dal-l’Africa subsahariana – con una sola eccezione, un cinquantenne dello Sri Lanka ora emigrato in Norvegia – tra i 20 e i 30, massimo 35 anni, senza alcun appoggio familiare in loco.
«Sono venuti a Piacenza perché il lavoro nella logistica non manca: ha colpito anche noi questa velocità e disponibilità ad ottenere un’occupazione. Il contratto termina e già hanno davanti diverse offerte. Il problema è che bisogna chiedersi se questo lavoro rispetta appieno la dignità dell’essere umano. È ora come città che si faccia una riflessione seria su quel che viene offerto».
Don Giuseppe Lusignani guida la popolare parrocchia alla periferia di Piacenza, 7mila abitanti, il 40% rappresentato da immigrati. Con l’inaugurazione della casa, il 6 novembre, e subito dopo l’arrivo dei primi quattro ospiti – per l’emergenza sanitaria non è ancora stato possibile raggiungere il tetto massimo di sette persone accolte contemporaneamente – ha dato un volto e delle storie ai working poor.
«I ragazzi che sono qui non sono degli sprovveduti, hanno spesso degli studi alle spalle, Piacenza la vedono come un luogo di passaggio obbligato, perché c’è lavoro. Progettare il futuro, nella precarietà continua che vivono, non è semplice » fa notare don Lusignani. Per questo il progetto della casa prevede non solo di fornire un tetto sulla testa, ma di accompagnare ogni ospite dentro un itinerario personalizzato che – in massimo 18 mesi – gli permetta di camminare da solo.
La presenza di un educatore, Alessandro Ghinelli, operatore della Caritas diocesana, e di un gruppo di volontari della parrocchia servono a questo scopo. Ma la realtà, non ha problemi ad ammettere don Giuseppe, è ben diversa dagli obiettivi pensati a tavolino: «Questi ragazzi sono molto assorbiti dal lavoro, che è su turni e non aiuta a creare momenti comuni, sia la cena in casa che una semplice partita a pallone con i giovani della parrocchia».
La preoccupazione di mandare soldi alla famiglia nel Paese d’origine è un altro punto di vulnerabilità. Lo stipendio medio da magazziniere da 1.200 euro che percepiscono devono imparare a gestirlo pensando a una piccola somma da mettere da parte per una casa autonoma, se mai un contratto d’affitto riusciranno a trovarlo, non potendo offrire garanzie di stabilità. «Quel che tutti mi dicono – spiega Ghinelli – è che non vogliono fare questo lavoro tutta la vita. Mi raccontano di aziende che sono attente a verificare che i lavoratori non portino carichi eccessivi, ma ce ne sono anche altre che non si fanno scrupoli ad oltrepassare i limiti e se uno riesce a fare il lavoro di due di certo non hanno da recriminare.
Un ragazzo mi ha parlato di un collega di sessant’anni: «Io non voglio finire così» ha ripetuto. Il desiderio comune è di uscire prima o poi dalla logistica. «C’è chi vorrebbe fare il panettiere, andare ad occupare quei posti vacanti, che ci sono. Ma ci vogliono corsi di formazione. Stiamo contattando vari enti del territorio per cercare delle opportunità, nella consapevolezza che, per frequentare un corso, dovrebbero interrompere il lavoro. E non è che tutti vogliano o possano permetterselo».
Don Giuseppe ed Alessandro una certezza ce l’hanno. «Qui i miracoli non li facciamo, però la casa può offrire uno spazio di speranza, la prospettiva di un futuro. Nel confronto tra culture e fedi diverse che stiamo vivendo si crea anche uno spazio di crescita onesto, serio».
Uno degli ospiti, affiancato da un volontario, ha accettato di raccontare la sua storia a un gruppo di giovanissimi della parrocchia. «Ha parlato del suo viaggio, dei 23 giorni di detenzione in Libia, del suo sogno di trovare una fidanzata e formarsi una famiglia. Vorremmo organizzare in futuro altri incontri, aperti a tutti».
L’altro tassello che manca è il coinvolgimento della città. «Questo progetto – sottolinea don Lusignani – non è solo della parrocchia o della diocesi, riguarda tutta Piacenza. Uno dei nostri ragazzi si è adattato a dormire in una stanza con vermi e scarafaggi che gli giravano sul corpo, doveva portarsi sempre dietro i documenti per paura di essere derubato. Non si può restare indifferenti».