venerdì 18 novembre 2016
Via dalla Siria, lasciata alle spalle la Turchia, il viaggio si interrompe al confine con la Macedonia. Le Ong: qui c'è la polvere che l'Europa nasconde sotto il tappeto
Grecia, i 50mila fermi nel limbo dei campi. In attesa dell'Europa
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È già mattino inoltrato quando il campo di Vasilika, 30 chilometri da Salonicco, si risveglia e si anima. Non c’è motivo di alzarsi presto, di allungare giornate che già non finiscono mai. Quando ancora molte delle 307 tende sono immerse nella quiete del sonno, dentro questo complesso industriale dismesso lontano da ogni centro abitato, due bambini in pigiama sollevano il tendone bianco che è l’uscio della loro abitazione ed escono a giocare. Un anziano signore è seduto sulla sua carrozzella, procede all’indietro, lentissimo, le ruote ostacolate dal ghiaione del piazzale, appena oltre i portelloni del deposito dove si trova la sua tenda. Vuole raggiungere l’ambulatorio di Médecins du Monde, essere già lì quando alle 10 cominceranno le visite. È siriano, come gli 820 abitanti del campo, da giugno alloggiati in capannoni contigui, i primi quattro destinati agli arabi, gli altri ai siriani curdi. All’interno, i picchetti delle tende sono conficcati direttamente nel cemento. Fuori, in fila, wc chimici, lavandini e cabine- doccia di plastica. Via dalla Siria, lasciata alle spalle la Turchia, il viaggio di tutti qui è stato interrotto alla frontiera con la Macedonia: chi vive a Vasilika proviene dagli accampamenti spontanei di Idomeni, in particolare dalle tende sorte alla stazione di servizio Eko, dopo che la 'rotta balcanica' verso il nord Europa è stata sbarrata, lo scorso febbraio.

Bloccati in attesa dell'Europa

Da allora oltre 50mila persone sono rimaste bloccate in Grecia (metà siriani, ma anche afghani, iracheni, pachistani). La maggior parte di loro vive in campi governativi gestiti dall’esercito greco insieme all’Acnur, l’agenzia Onu per i rifugiati. Qui è come vedere «la polvere nascosta sotto il tappeto dell’Europa» ci dice Maurizio Cara, coordinatore di Firdaus e Mam Beyond Borders, due Ong che operano nel campo. Tutti aspettano di ripartire, magari grazie al ricongiungimento familiare o alla relocation, il programma eu-È ropeo di ricollocamento dei rifugiati che tra il 2015 e il 2017 prevede il trasferimento di 66.400 richiedenti asilo dalla Grecia (e di 39.600 dall’Italia) verso altri Paesi europei, nel segno di una redistribuzione dell’accoglienza. Fino ad oggi, però, è avvenuto solo il 4% dei trasferimenti. Dalla Grecia sono partite 4.600 persone, dall’Italia ancora meno. Gli altri attendono che l’Europa si dia una mossa. «Sono nove mesi che siamo via da casa, siamo appena arrivati a Vasilika» racconta Fatima, siriana di Hassaké. «Abbiamo vissuto in un’abitazione di greci, poi siamo passati nel campo di Diavata che era in cattive condizioni. Questo è migliore, ma quanto tempo stanno perdendo i miei bambini! Mangiano, dormono e – scusa se lo dico – vivono come animali». Fra le tende, fili tesi con i panni ad asciugare, pentole impilate, coperte militari stese a fare da tappeto, verdure da pulire per la cena: le donne sono occupate nelle faccende di casa e, anche se una casa non c’è, i loro sforzi e le cure ricreano angoli domestici, pure dentro questo magazzino. All’ingresso di ogni tenda, sandaletti, ciabatte, scarpe da uomo e da donna lasciano indovinare chi viva all’interno.

Storie dei “fantasmi”

Basta un lembo del tendone che si solleva e l’intimità degli occupanti è esposta all’occhio di chi passa o di chi abita un metro più in là. Il signor Adnan fa ritratti a matita, visi di donne e bambini del campo, scene quotidiane. Dagli album più vecchi, ci mostra schizzi con gli scorci di altre tappe del viaggio. Andiamo a ritroso, fino al disegno della sua casa di pietra nella campagna di Afrin, di cui «non è rimasto più niente». Anche Mohammed viene da lì: ha aperto una bottega da barbiere accanto alla sua tenda, una sedia di plastica, uno specchio al muro. L’acqua non c’è, ma con il phon e il rasoio elettrico ce la mette tutta. I giovani sembrano i più inquieti: basta uno scambio di battute al chiosco dei falafel (piccola attività aperta da alcuni ragazzi) per sentirsi sbattere in faccia il risentimento contro l’Europa che li ha confinati lì. Oltre i cancelli sempre aperti, superata la guardiola della polizia, lungo il rettilineo dove sfrecciano veloci le auto, c’è la fermata dell’autobus n. 87. In 50 minuti si arriva a Salonicco. A bordo incontriamo Ibrahim, rimasto a Vasilika per due mesi e ora al lavoro come traduttore dopo avere deciso – uno dei pochi siriani a farlo – di chiedere asilo in Grecia perché «la redistribuzione prevede attese troppo lunghe». L’aspetto peggiore della vita nel campo? Più delle tende, del cibo cattivo, più dei bagni chimici e della mancanza di intimità, «la cosa più dura là dentro è non avere mai nulla da fare».

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