L’azzardo azzurro abbatte l’ultimo baluardo: in un passato recente, per restare al-l’Italia, squadre come Milan e Juventus, Genoa e Sampdoria, Pescara e Lecce, passando per il campionato di Serie B, hanno avuto come sponsor società del settore scommesse e, se è vero che nel tempo sono diminuiti i loghi sulle maglie, è altrettanto vero che sono aumentati gli accordi di partnership commerciali che vanno dalla presenza nella cartellonistica degli stadi a quella sui siti ufficiali. Poche società hanno saputo resistere alla tentazione, barattando l’immagine per qualche centinaia di migliaia di euro in più. Ma almeno resisteva la Nazionale. Resisteva, appunto. Eppure basterebbe guardarsi attorno per capire che è il momento di fermarsi. I primi dubbi di carattere etico nel merito, nel Regno Unito, se li sono posti una decina di anni fa, quando il fenomeno iniziava a prendere piede e le sponsorizzazioni dei club di Premier League da parte di aziende operanti nel campo delle scommesse sportive diventavano sempre meno infrequenti. Affinità elettive: da quelle parti il calcio è nato e storicamente quella è la patria di
bookmakerse affini, tanto che il
gambling, l’azzardo, è una piaga sociale che coinvolge milioni di persone. Così, nel 2006, un provvedimento governativo entrato in vigore l’anno successivo impose ai club di eliminare gli sponsor delle agenzie di allibratori dalle maglie ufficiali destinate ai bambini; la
ratio era quella di proteggere i più piccoli dalla familiarizzazione con loghi e nomi di un mercato tanto remunerativo quanto pericoloso. La normativa è ancora in vigore, ma siccome i bambini di allora sono gli adolescenti di oggi, prevedibilmente (perché sulle magliette dei giocatori e su quelle destinate agli adulti il bando non esiste) di risultati significativi non se ne sono ancora visti. Anzi, il business funziona sempre di più: nella stagione 2016-2017 del massimo campionato inglese, infatti, ben 9 società su 20 hanno come
main sponsor sei diversi colossi delle scommesse e dell’azzardo, un numero mai raggiunto in precedenza. Dal West Ham allo Swansea, dal Watford al Crystal Palace, dal Sunderland allo Stoke City, dove anche lo stadio è stato ribattezzato per ragioni commerciali con il nome di una compagnia specializzata nelle scommesse sportive. Ma non finisce qui, perché il fenomeno ha numeri elevati anche in
Championship, la B inglese dove fra gli altri pure Leeds e Nottingham Forest hanno firmato lucrativi accordi con aziende di gioco digitale, e gli stessi tre campionati organizzati dalla
Football League hanno come sponsor un’azienda del medesimo settore. Il motivo? A certi livelli la visibilità è garantita a livello globale e tifosi e appassionati sono i destinatari del messaggio, peraltro facili da fidelizzare: per fare un esempio di scuola, quando una nota azienda del
betting , delle scommesse, divenne
main sponsor del Real Madrid, al termine dei sei anni di durata dell’accordo (2007-2013) la stessa era arrivata a raccogliere da sola il 20% dell’intero mercato delle scommesse sportive in Spagna. Ecco allora che, dopo i settori più classici e remunerativi delle sponsorizzazioni sportive, storicamente quelli automobilistico e bancario-assicurativo e recentemente quello turistico (nella fattispecie le compagnie aeree di Medio ed Estremo Oriente), il
betting online sta crescendo di importanza tra i finanziatori del pallone inglese: è di circa 80 milioni di sterline l’investimento in sponsorizzazioni e partnership in questa stagione, comunque un’inezia a fronte dei 67 miliardi di euro – il dato è dell’ultima edizione di Report Calcio – puntati la scorsa stagione in tutto il mondo sulle gare di
Premier League. Un circolo vizioso: l’azzardo foraggia il calcio il quale a sua volta di fatto istituzionalizza il mercato delle scommesse, con il tifoso/cliente – e lo Stato, in termini di costi sociali – quali vittime. Nel Regno Unito l’istanza torna a cadenze piuttosto regolari nell’agenda dei membri del parlamento, in altri Paesi (come Portogallo e Svezia) un divieto c’è ma si applica solamente ai soggetti non autorizzati ad operare entro i confini nazionali. Ma, come già accadde per l’industria del tabacco, sarebbe ora di adottare un divieto totale.