Una telecamera in una strada turca ha ripreso l’attimo dell’inizio. Quando, sotto a un bagliore di fulmini, la terra ha cominciato a scricchiolare, poi a scuotersi, sempre più rabbiosa, di dosso quei palazzi, quelle case che per decenni e persino per secoli avevano retto. Orribile il suono dei muri che ballano prima di aprirsi, del cemento armato che sembra ribellarsi, non vuole cedere, e poi in un clangore schianta. E dopo il boato spaventevole, il silenzio: e nebbia, solo una fittissima nebbia sulla città.
Città? Al mattino, dall’alto, nel ronzio dei droni parranno, quelle falangi di palazzi accartocciati, nidi di formiche. Nei bar sotto casa in Italia la gente guarda lo schermo della tv per due minuti, muta. Poi non regge, volge lo sguardo a terra, paga il caffè ed esce. Troppo, troppo male in Turchia, e in Siria, già massacrata dalla guerra. Un insostenibile male.
In verità, penso fra me andandomene a capo chino come gli altri, il peggio è ciò che in quelle immagini non si vede: sotto, dentro il cemento, nelle intercapedini in cui ancora un po’ d’aria resta.
Le madri con i loro bambini prigionieri, il figlio che ti muore fra le braccia, le grida, i lamenti. Nel buio e nella polvere che brucia gli occhi, e la gola. Acqua, acqua, implorare un goccio d’acqua. Battere disperatamente contro un muro, ma nessuno ti sente. Il raspare disperato di un cane che cerca il suo padrone. Come cento atomiche, è stato detto, non un sisma ma un’enorme furia, un’apocalisse sul sonno delle famiglie, dei bambini. Una mole, un Vajont di dolore innocente. (Ma, non è scritto che «Ogni capello del vostro capo è contato»?, ti interpella acremente una domanda). Al pensiero di ciò che accade sotto le case crollate, e che non sapremo mai, mi è quasi meno doloroso quell’affannarsi frenetico di soccorritori sulle macerie, con le scale, con le ruspe, con i badili e le mani. Cercano, prima di tutto, i bambini, che, piccoli, possono sopravvivere per ore in minimi spazi. Se ne vede in un video una che carponi, in pigiama, scivola fuori da sotto una lastra di cemento, Come un gatto. O come un miracolo. Se ne vedono, neonati, in braccio a uomini che forse non sono i loro padri, eppure piangono di gioia, nel sentirseli caldi sul petto, nel sentirli vivi. Commuovono, i soccorritori visti dall’alto dei droni, così piccoli, su quello sfacelo. Che può fare quella ridicola ruspa, sulle rovine di dieci piani di cemento? Eppure, come si affannano, come rischiano la loro stessa vita, come si fermano di scatto, se appena sembra di cogliere, da là sotto, una voce. Gli uomini sanno anche, a volte, essere buoni. (A volte. In Siria, ancora fresco è il sangue di un altro massacro. In Ucraina tuonano i cannoni). Ma, mi dico fissando l’asfalto del marciapiede, gli occhi a terra, io proprio non capisco, e mi ribello. Tutta quella morte, sul sonno migliaia di bambini che sognavano il giorno, la mamma, la scuola. Lo comprendo, l’Ivan dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij che voleva « restituire il biglietto » . Il biglietto per questa vita, restituirlo, come rinunciando a un giro di giostra troppo caro, dal costo insostenibile: non trovando risposta né pace, di fronte al dolore innocente.
Eppure quei là, laggiù, si affannano a scavare, a salvare, e aiuti stanno arrivando da tutto il mondo, cibo, farmaci e non armi, per una volta. Così radicato nell’uomo è anche un desiderio di bene, accanto a tanto male. Te ne stupisci, quasi. Perché, se fossimo figli del nulla, dovremmo desiderare, anche, il bene? C’è da attaccarsi a questo pensiero come a una corda di salvataggio. C’è da pregare, da soffrire con, e aiutare. Che roba è stata due giorni fa in Turchia, sotto a quel cielo di fulmini, che roba è stata quel furore della terra? C’era forse anche la notte del 6 febbraio 2023 in Turchia e in Siria, nella notte del Sabato che Cristo ha traversato? C’erano, anche, quei bambini? Smettila, dico a me stessa, che vuoi capire. Non c’è risposta a tanta sofferenza. Solo, ostinata, coriacea anzi, mi resta dentro una speranza: oggi vediamo confusamente, come in uno specchio, ma un giorno vedremo “faccia a faccia”.