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Quando ci lamentiamo per i treni che si rompono o non arrivano, i pronto soccorso nel caos, i tempi biblici per fare un esame medico gratuito, le buche nelle strade, le scuole in pessime condizioni, oppure gli argini dei corsi d’acqua che non reggono l’impatto del cambiamento climatico dovremmo sempre tenere presente che esistono due ordini di responsabilità: il primo è riconducibile alla buona o cattiva gestione, e qui si possono chiamare in causa legittimamente i ministri, i governatori, gli amministratori locali, il livello di preparazione della burocrazia e del capitale umano di un territorio; il secondo è un po’ meno ampio, e porta diritto al tema delle risorse.
Il problema di fondo, se tante cose non vanno come vorremmo, è che non ci sono i soldi. Cioè non abbiamo i mezzi economici per fare funzionare bene ciò che in un Paese avanzato dovrebbe funzionare bene. Questo dovremmo ricordarlo, senza derogare agli sforzi per individuare le responsabilità politiche o gestionali, quando, ad esempio, parliamo di tasse da aumentare o da tagliare e di risorse per la manovra dell’anno. O di “sacrifici”, termine usato di recente dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.
Ma perché non ci sono i soldi? Le ragioni sono molte, ma una delle principali riguarda il debito pubblico elevatissimo e la necessità di mantenere i conti pubblici sotto stretto controllo: per non aumentare troppo le tasse siamo costretti a tagliare molto le spese. Per fare un paragone, l’Italia ogni anno spende più del 4% della ricchezza che produce solo per pagare gli interessi sul debito, la Francia, che pure col debito oggi non sta benissimo, solo il 2%. I nostri margini sono strutturalmente ristretti: si può derogare all’austerità, ma non per troppo tempo.
Dove trovare, dunque, i soldi che ci servirebbero? In questi giorni si parla molto di tasse e di tagli, ma trovare una quadra non è facile, perché a nessun governo piace dare l’idea di aver fatto pagare più imposte ai suoi cittadini, tantomeno a un esecutivo di centro-destra che si è dato la missione di ridurre la pressione fiscale. Ma, nel caso, a chi dovrebbero essere richiesti eventuali sacrifici?
Un semplice confronto con un Paese vicino può essere utile ad aprire qualche riflessione. In Italia, secondo le rilevazioni Ocse 2023, le entrate fiscali sono pari al 42,9% del Pil, in Francia al 46,1%. Più interessante è però analizzare la distribuzione del carico fiscale: le imposte sulle persone fisiche ammontano in Italia al 26%, in Francia al 21%, ben 5 punti in meno. Invece Oltralpe sono maggiori le entrate dalle imposte sulle società, il 5,6%, contro il 4,4% del nostro Paese. Parigi, poi, tassa molto di più la vera ricchezza attraverso il prelievo sui patrimoni: 8,5% del Pil, contro il 5,8% di Roma. Sull’Iva non ci sono molte differenze, 15,7% in Italia contro il 16,4% della Francia, così come sui consumi, col nostro 12,5% (che comunque non è poco) rispetto al 10,7% francese.
Perché questo paragone con i cugini transalpini? Perché in Francia il sistema di tassazione sulle famiglie è qualcosa che andrebbe tenuto a riferimento nel momento in cui si hanno a cuore alcuni principi di fondo. Le aliquote francesi sono tutte più basse di quelle italiane. La no tax area è più alta, e quando si supera il livello di esenzione si paga solo il 14%, non il nostro 23%. Inoltre, in Italia l’aliquota che definisce la ricchezza, il 43%, scatta già a 50.000 euro, mentre in Francia si applica il 41% dai 74.000 euro e il 45% dai 156.000 euro. Cioè: tutti pagano meno tasse, anche il ceto medio, mentre a contribuire di più sono i veri ricchi.
Il sistema francese di aliquote, no tax area e rimborsi fiscali fa sì che a versare le imposte sul reddito sia la minoranza dei francesi, solo il 43,9%. Uno studio curato da Franco Delvecchio, consigliere Aldai Federmanager, ha messo bene in luce cosa questo comporti per le famiglie. In Italia un reddito di 20.000 euro annui paga di Irpef il quadruplo rispetto alla Francia, un reddito da 30.000 euro il triplo, un reddito da 50.000 l’87% in più, un reddito da 80.000 il 73% in più, e con 100.000 il 56% in più. Se poi la coppia con 100.000 euro di entrate avesse due figli, grazie al quoziente fiscale verserebbe all’erario 26.000 euro in meno rispetto all’Italia.
Un fisco veramente a favore delle famiglie, di tutte le famiglie, anche nell’ottica di sostenere le nascite, insomma, non è impossibile da immaginare. Ma, si dirà, come si possono far pagare così poche tasse alle persone che lavorano senza che il sistema imploda? Qui viene la parte difficile. Intanto, come abbiamo visto, il gettito transalpino grava un po’ di più sulle grandi imprese e sui patrimoni. La tassa sulle “fortune immobiliari”, l’Ifi, che scatta oltre gli 800mila euro di valore, è solo un esempio. Così come l’imposta più elevata sulle successioni. Nel 2022, circa 164.000 soggetti fiscali sottoposti all’Ifi, hanno versato allo Stato francese quasi 2 miliardi di euro.
Il muro che si alza in Italia ogni volta che qualcuno tocca questo ambito fa intendere quale sia il grande malinteso nazionale attorno termine “ricchezza”. Basti pensare a come Roma preferisca puntare sempre il mirino sui redditi piuttosto che sulle rendite, oppure a quanto ci si dimentichi di favorire i nuclei con figli che vivono del solo stipendio e pagano le tasse.
C’è, in realtà, anche un contesto strutturale, che permette alla Francia di avere un’Irpef più leggera. Oltralpe il tasso di occupazione è molto più alto dell’Italia, il 74% contro il 62%, e dunque più persone contribuiscono. Le retribuzioni sono poi più elevate, e non così sostenute dalle decontribuzioni che gravano sul bilancio pubblico, come avviene in Italia. Infine, in Francia, l’evasione fiscale è quasi il 40% in meno rispetto all’Italia, un dato sul quale probabilmente incide il fatto che la quota di lavoro autonomo è la metà, circa l’11% contro il nostro 21%.
Qui, però, nonostante i passi avanti compiuti negli ultimi anni nella lotta all’evasione, si entra in un campo un po’ più complesso. Il confronto sulle tasse è sempre faticoso, anche in virtù di una cultura che tende alla demonizzazione del prelievo fiscale, al perdono facile e ricorrente di chi si sottrae agli obblighi fiscali, alla difficoltà nel collegare l’imposizione all’efficienza dei servizi pubblici. Al di là dei confronti con altri sistemi fiscali, la cui utilità si ferma agli spunti di riflessione che ne possono scaturire, la questione può ridursi a una semplice domanda: noi quale ricchezza vogliamo tassare?