Fra aggressioni, lanci di oggetti e insulti che ha subito, deve aver perso il conto. Ma non vuole tirarsi indietro e la ragione la spiega anche facile: «Non c’è rischio senza Vangelo, né Vangelo senza rischio». Don Antonio Coluccia, che da anni aiuta chi ha bisogno e organizza le “passeggiate della legalità” (definizione che non gli piace, preferisce «presidi pastorali») nelle periferie romane più calde e nelle piazze di spaccio, dal Quarticciolo a San Basilio, da Tor Bella Monaca al Laurentino 38, è arrabbiato. «In questi luoghi ci sono volti, storie, sogni - tuona - e molto spesso sono traditi dalla cattiveria e a volte dall’assenza dello Stato». Su tutti, ce l’ha con le mafie: «In questi territori viene minato il diritto di scelta, questi ragazzi non possono nascere già condannati», spiega, pensando a droga e clan.
Crocifissi e crocifissori. L’ultima aggressione, pesante, non sorprendente, ma preoccupante, è di qualche giorno fa: Quarticciolo, un uomo cerca d’attaccare il sacerdote con un bomboletta di metallo, gli uomini della scorta lo bloccano, pochi istanti e sono circondati da una sessantina di persone che colpiscono i poliziotti (due finiscono in ospedale e avranno sette giorni di prognosi), costretti a esplodere un colpo di pistola in aria. «In queste piazze - dice don Coluccia - ci sono i crocifissori e i crocifissi: i crocifissori sono i clan, i crocifissi i poveri disgraziati. Che dobbiamo schiodare dalla croce. Ecco perché credo sia importante rischiare, osare, compromettersi».
Normalizzazione del crimine. La scorsa settimana, per esempio, aveva portato al Laurentino 38 il presidente della Commissione parlamentare sul Degrado delle città e delle loro periferie”, Alessandro Battilocchio (FI), e la presidente del Municipio Titti Di Salvo (Pd), per una passeggiata iniziata dal bar dove tre anni fa venne picchiato dalla ‘ndrangheta il proprietario Andrea Martini (con moglie e dipendenti), di cui raccontiamo più avanti. «C’è una fase - ripete don Coluccia -, e lo dico anche a livello pastorale, che mi preoccupa, la normalizzazione dei fenomeni criminali, l’assuefazione delle persone».
Spaccio e vite da due soldi. Non solo: « Nelle piazze di spaccio, poi, c’è un linguaggio comune, la banalizzazione della vita e del suo valore». Un ragazzo gli raccontava che «quando siamo a Rebibbia, quando esci già ci dicono la piazza (di spaccio, ndr) dove devi andare a lavorare». A Roma c’è, dice don Coluccia, «un livello altissimo di narcotraffico». E la Capitale «si commuove, ma non si muove». Al contrario, bisogna «andare a occupare questi territori e farlo con Vangelo e Costituzione».
Vangelo e Costituzione. Cita l’articolo tre della carta costituzionale, il prete antidroga capitolino: «La Repubblica rimuove gli ostacoli che limitano libertà e uguaglianza dei cittadini, bene, gli ostacoli in quei quartieri sono almeno due, l’occupazione delle case e il racket che la gestisce e lo spaccio, che diventano fonte di sostentamento, un welfare vero e proprio, i clan danno tutto e senza burocrazia». A proposito, «per il credente il riferimento dev’essere il Vangelo, per il cittadino la Costituzione», taglia deciso e corto don Coluccia.
Maria e i lanci d’oggetti. Dopo quell’aggressione nel bar, al Laurentino 38, ricorda don Coluccia, «cominciammo un percorso che dura ancora oggi addirittura con una piccola fiaccolata di preghiera e con Maria come... apripista». Poi, lì, tirarono loro oggetti dai palazzi, bombe carta, ebbero dei problemi, «ma non siamo mai venuti meno, non abbiamo arretrato».
Dove inizia la città. Il circolo è vizioso, difficile da spezzare. «La gente vuole collaborare, ma ha paura», spiega il prete: «Le persone si avvicinano e ti dicono “grazie”, ancor più se t’incontrano fuori dal loro quartiere. Ma le cose possono cambiare, sono positivo». Una chiave è «non vedere la periferia come l’ultima parte della città, ma come l’inizio. In periferia ci sono sentimenti e tante cose positive e belle, dobbiamo rafforzare queste».
Il Giubileo. Ha una grossa speranza, don Coluccia: «Il Giubileo. Spero veramente che possa portare questo riscatto alla città. Che possa veramente portare un’innovazione, far cambiare l’idea e il modo dell’abitarla». Con la speranza, ha però anche una altrettanto grossa certezza: «Come sacerdoti, siamo e saremo sempre dalla parte dei poveri, dalla parte degli ultimi e degli oppressi. Chi pensa di schiacciare la vita di queste persone, sappia che la difenderemo fino alla fine, anche se dovesse costare la vita».
Andrea sprangato. Porta i segni sul naso e poco più su della fronte, «li porterò per tutta la vita». Tre anni fa «una famiglia ‘ndranghetista di questo quartiere, che conoscevo da quarant’anni perché coinquilini dello stesso palazzo, è arrivata nel mio bar e ha aggredito me, mia moglie e miei dipendenti. Con una violenza inaudita» e «spesso quando mi guardo allo specchio, mi ricordo quel che è successo». Perché «volevano condividere i loro sporchi interessi con me». Invece Andrea Martini, proprietario dell’Antico bar al Laurentino 38 (lui venti giorni di prognosi e otto punti in testa, la moglie tre costole rotte, il locale danni per 10mila euro), non ci sta: «Ovviamente, mi sono ribellato» e l’ha pagato in quel modo. Come l’ha pagato suo figlio, che aveva tredici anni e veniva insultato («Ecco il figlio dell’infame») per strada, sull’autobus, anche mentre andava a scuola.
«Non viene più nessuno». Dopo l’aggressione da vigliacchi e le sprangate - racconta - «il bar si desertifica. Non viene più nessuno. Loro minacciano le persone che frequentavano il mio locale. E la gente, impaurita, non viene più». Va avanti così per mesi, praticamente «non lavoriamo», il bar è a un passo da chiudere per fallimento e sempre. Poi «ringraziando il Signore, arriva l’intervento di don Coluccia, lui con Polizia e Carabinieri, mi hanno dato un grande aiuto, che ancora oggi continua, e ho lottato per andare avanti», ricorda Martini.
Paura. Poi l’aiuto. Lo capisce tuttavia bene, Andrea: «Non è facile mettersi contro questa gente, so che non lo è. Gente che chiama infama me e anche mio figlio e invece, sebbene io non usi questa terminologia, credo che gli infami siano loro».
Una bella mattina, calda, un po’ di nuvole, ma è giornata piacevole di quelle da “ottobrata romana”. E adesso, tre anni dopo? «Il bar si è ripreso, diciamo che va discretamente avanti - risponde, ai tavolini all’aperto siedono sei, sette persone -. Però, ancora oggi, c’è chi minaccia i miei clienti, li blocca poco fuori dal bar e dice loro “perché vai a ‘sto bar de st’infame?!”». Non molla. Anzi, è allegro, a un certo punto fa «vedi? In questo bar non t’annoi mai» e in effetti c’è un discreto via vai, si conoscono più o meno tutti, si salutano, una battuta, due chiacchiere, un ragazzo in carrozzina fa colazione seduto da solo e però non è solo.
Da un male... «Come si dice, da un male nasce un bene», spiega. E ne è davvero convinto: «Dopo la mia aggressione, il quartiere ha iniziato a prendere fiducia nella divisa», racconta. «Prima le guardie non erano ben viste». Don Coluccia chiede alle persone e alle forze dell’ordine di “osare” e «il Commissariato locale ha fatto molti arresti e ha ridato alla gente la possibilità di avere fiducia nello Stato». Non è poco, affatto, lo dice lui stesso: «Qui per trent’anni siamo stati abbandonati dallo Stato. Abbandonati». Adesso, con le passeggiate della legalità di don Coluccia, con parlamentari che di tanto in tanto vengono portati a vedere la situazione, con il dialogo continuo fra persone, associazioni e forze dell’ordine qualche luce s’è accesa. Non che i malavitosi abbiano mollato la presa, però alcuni di loro sono a vedere il sole a scacchi e, soprattutto, sono sempre più soli e sempre meno presi a “esempio” dai giovanissimi.
«Ho fiducia». Insomma, tre anni dopo cos’è cambiato qui, secondo Andrea Martini? «Molto, è cambiato molto. Abbiamo fatto una sorta di resistenza. E io sono ho buone speranze», risponde. Proprio ultimamente, ad esempio, «abbiamo fatto richiesta d’illuminare il nostro quartiere, visto che il buio favorisce soltanto la malavita. Abbiamo chiesto di mettere dissuasori sulle strade per rallentare la velocità. Stiamo chiedendo diverse cose». Già, ma bisogna vedere se arriveranno. «Vero. Ma sono molto fiducioso che ci aiuteranno».