Mauro Rostagno - Archivio Avvenire
«Ci sono traffici di stupefacenti cui voi non arriverete mai». Trapani, gennaio 1988. L’ispettore della Mobile Antonino Cicero incontra Pietro Ingoglia, "fonte" vicina alle cosche di Partanna. Il poliziotto ha svolto indagini delicate a Palermo ed è stato trasferito per ragioni di sicurezza dopo gli assassinii dei commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà. Lui stesso, mesi prima, è sfuggito a un agguato sotto casa. Da Ingoglia vuole sapere se sulla sua testa pende ancora la spada della vendetta mafiosa.
L’uomo lo rassicura: i boss hanno altro a cui pensare, a Palermo è imminente l’ennesima guerra di mafia e le famiglie stanno cercando di rifornirsi di armi. Poi, a sorpresa, Ingoglia aggiunge: «C’è tanto in giro. C’è questo discorso...» Incuriosito, Cicero lo incalza. «Quale discorso?». L’uomo, che sarà ucciso pochi mesi dopo, risponde: «Andreste mai a trovare la droga che arriva dentro le casse delle bombe, che arrivano da fuori?». Il poliziotto sgrana gli occhi. «Zu’ Pietro, casse delle bombe?». Risposta: «Eh, arrivano. Arrivano casse delle bombe in aerei all’aeroporto militare». Si tratta di Birgi? Non è chiaro. Perché a Trapani esiste anche la pista di Chinisia. Ufficialmente dismessa, in realtà potrebbe essere stata usata per voli fantasma con armi e droga.
Cicero – che poi racconterà la vicenda durante il processo per l’omicidio Rostagno – si rende immediatamente conto della gravità della questione. Non dice nulla in questura e si fionda a Roma per riferire direttamente a tre alti funzionari del ministero dell’Interno. Oggi, rintracciato da Avvenire, l’ispettore conferma tutto perché «se uno racconta la verità le sue parole non cambiano, anche un secolo dopo».
Premette che «Ingoglia era una fonte riservata, fu un altro funzionario di polizia a rivelarne l’identità…». E poi sottolinea che non fu l’unica stranezza. «Da Roma chiesero lumi alla squadra mobile di Trapani, cioè a me che gli avevo portato la notizia…». Un cortocircuito istituzionale che stroncò sul nascere l’inchiesta.
«Non eravamo certo noi a poter indagare su una storia simile, ma ben altri organi investigativi…». Persino i giudici di Trapani si stupirono dell’assenza di un’indagine su una notitia criminis così clamorosa. «In tutti questi anni nessuno mi ha mai chiesto nulla» chiosa amaramente Cicero, che ha scoperto di essere stato addirittura "cancellato". «Del mio viaggio a Roma sparì ogni traccia, persino la nota spese con i biglietti aerei. E ricordo che tornando a Fiumicino mi accorsi di essere seguito...»
Tra le nebbie di Trapani si inoltrò anche Mauro Rostagno. Il giornalista, che avrebbe ripreso un aereo militare mentre caricava armi proprio a Chinisia, prima di essere ucciso stava studiando a fondo anche l’economia della droga. Sono gli anni in cui la mafia siciliana domina il mercato globale dell’eroina. Un business enorme, che genera capitali immensi da riciclare nei circuiti legali, con la connivenza di insospettabili imprenditori, colletti bianchi e persino pezzi dello Stato. Un’industria che non può incepparsi, perché conviene a tanti. Anche a chi, in teoria, sta dalla parte giusta.
Tra il 1987 e il 1989 lo scenario siciliano è intricato: dietro le quinte si muovono mafiosi, massoni e 007. A Trapani si annida il Centro Scorpione, una base Gladio che sarebbe del tutto inutile in caso di invasione da Est: lo dirige Vincenzo Li Causi, super agente del Sismi poi ucciso in Somalia nel ’93 in circostanze poco chiare. I pm esclusero legami tra Scorpione e Cosa Nostra, ma dissero che l’attività del centro restava un mistero. Talmente insondabile che solo la VII divisione del Sismi, quella che gestiva Gladio, era a conoscenza dell’operazione. Nessun altro, nemmeno il centro Sisde di Palermo, sapeva della sua esistenza.
La testimonianza di Cicero trova eco in almeno altre tre voci. Durante il processo Rostagno spuntano anche le parole choc di Francesco Elmo, freelance dei servizi segreti. L’uomo racconta di un sistema che consisteva nel simulare un guasto «che consentisse un atterraggio non previsto di un aereo militare in una pista vicino alla base di Sigonella». Un espediente sicuro, perché «collaudato anche in una pista vicino a Birgi». Chinisia, probabilmente.
La finta emergenza serviva, secondo Elmo, a «scaricare eroina che proveniva dalla mafia russa, e che veniva utilizzata per ottenere in cambio ingenti somme di denaro destinate all’acquisto di armi». E ancora: «Talvolta l’eroina può essere servita per ottenere direttamente le armi da Cosa nostra, specialmente mitragliatori Ak47».
Un quadro simile lo tratteggiò Aldo Anghessa, che a Trapani si infiltrò in una compravendita di armi tra mafiosi e terroristi palestinesi. «A Trapani arrivavano vecchi Dc3 carichi di droga – rivelò il controverso 007 al centro di mille misteri italiani –. Provenivano da Libia o Tunisia, volavano a bassa quota sul mare per sfuggire ai radar». Inverosimile? Non proprio.
Il 12 marzo 1997 un radarista di Birgi disse ai pm siciliani: «Se un aereo si fosse avvicinato volando a bassa quota a Chinisia sarebbe stato quasi impossibile vederlo, soprattutto se non vi fosse stata alcuna segnalazione».
Ma chi c’era dietro i presunti traffici? Anghessa lo spiegò a modo suo: «La Cia utilizza la droga da sempre per creare fondi neri. E se certe cose le fa un ristorante stellato, figuriamoci una trattoria di provincia...».
Ma i misteri circondano anche un altro vecchio aeroporto militare della zona. «Milo rimase un campo d’atterraggio fantasma gestito da famiglie mafiose. Erano i Virga a provvedere alla manutenzione. Il campo era abbandonato e pieno di erbacce. All’improvviso lo ripulivano. Erano i loro uomini e non i militari a dare accoglienza a quelli che atterravano e che poi prendevano in consegna quanto veniva scaricato...».
La testimonianza di un ex incursore del Comsubin, le forze speciali della Marina in "contatto" con Gladio, è raccolta nel libro "La Bestia" dell’ex giudice Carlo Palermo, tuttora alla ricerca della verità sull’attentato cui scampò nel 1985 proprio a Trapani, dove stava riannodando le indagini su armi e droga iniziate a Trento. Il boss Vincenzo Virga è stato condannato come mandante sia dell’agguato, in cui morirono una mamma e i suoi due gemellini, che dell’omicidio Rostagno. Ma forse non fu solo la mafia ad armare la mano dei killer. Né a Pizzolungo né a Valderice.
Il giornalista che indagava sui legami tra mafia, servizi segreti e massoneria
I traffici di droga e armi nascondono risvolti inquietanti, a volte con complicità imbarazzanti che toccano anche ambienti istituzionali. Lo aveva intuito Mauro Rostagno, sociologo e giornalista scomodo assassinato il 26 settembre 1988 a Valderice (Trapani).
«Essendo coinvolti in questo tipo di commercio clandestino anche taluni apparati dello Stato o esponenti dei servizi, in un simile quadro germinano accordi collusivi e scambi reciproci di favori altrettanto indicibili» scrissero i giudici di Trapani nella sentenza di primo grado del processo che ha condannato come mandante dell’omicidio Vincenzo Virga, capomafia locale nonché braccio destro del superboss latitante Matteo Messina Denaro. Il delitto, che maturò in un "contesto" (direbbe Sciascia) assai intricato – le presunte relazioni pericolose tra Cosa Nostra, massoneria e servizi segreti – presenta ancora molti lati oscuri. Basta incrociare vecchi documenti desecretati e nuove testimonianze per rendersi conto che resta ancora molto da capire.