Ha cominciato la sua carriera salvando vite umane. Poi, senza cambiare mestiere, ha iniziato a eseguire procedure di 'buona morte'. Anche su malati non terminali. Dopo l’agonia di nove giorni di una donna, uccisa per disidratazione, ha detto no all’ennesima procedura. Ed è stata licenziata. Poi un ictus e 11 giorni di coma l’hanno convinta definitivamente della china pericolosa che aveva imboccato. Lei e il sistema sanitario del suo Paese, il Canada. Ora Kristina Hodgetts è vicepresidente della Coalizione per la prevenzione dell’eutanasia.
La signora Hodgetts porta ancora qualche conseguenza di quell’emorragia cerebrale, che le rende difficile muovere la parte destra del corpo. Ma non le impedisce di girare il mondo per mettere in guardia chi si sta avviando sulla stessa strada, legislativa e culturale. È a Roma su invito del presidente di Provita onlus, Toni Brandi, molto critico sul disegno di legge sulle Di- sposizioni anticipate di trattamento.
«Sono sposata, madre di due figlie e ho cominciato come infermiera nell’esercito canadese. Ho lavorato in un pronto soccorso, in terapia intensiva, poi sono diventata responsabile degli infermieri in una casa di cura a lungo termine. All’inizio – racconta – l’obiettivo dei sanitari era salvare vite ad ogni costo. Non avevamo tempo di preoccuparci degli ordini di Dnr, cioè di sospensione della rianimazione. Ma i tempi sono cambiati: il personale medico deve prendere in considerazione le direttive anticipate del paziente prima di rianimarlo, e tutelarsi da potenziali responsabilità legali». «Quando sono entrata nella casa di cura – racconta – i medici fornivano i cosiddetti ordini di cura palliativa: da 0,5 a 2 miligrammi di morfina l’ora, sospensione di acqua e cibo. Anche se i pazienti non stavano morendo.
E mi è rimasta impressa la storia di un’anziana arrivata dall’ospedale con l’ordine di cure palliative. Una delle mie infermiere mi disse: facciamola finita, non rischiamo che si riprenda, vogliamo solo che muoia. Di solito cedono entro 72 ore. Ho pensato: accadrà presto. Ma non moriva. Un collega mi disse: sta succhiando l’acqua dalla spugnetta messa sulle labbra per inumidirle». «Cosa stavamo facendo? Non c’erano segnali di morte imminente. Ma la figlia non voleva che la dissetassimo, pensava avremmo prolungato la sua agonia. Ci sono voluti nove giorni. Ed è stata una morte tremenda: si seccano le mucose della bocca, poi i polmoni, alla fine si bloccano i reni. Non mi sembrava giusto. Poi ci è capitato un caso analogo, la signora Kelly che aveva subito un leggero ictus. Sua figlia Kate fu costretta ad assistere inerme alla morte della madre, perché il fratello, unico fiduciario, aveva deciso di sospendere l’idratazione. Durante il procedimento di valutazione del caso dissi che non ero d’accordo. Fui licenziata».
«Un anno e mezzo dopo mi sono trovata improvvisamente dall’altra parte: un ictus emorragico al cervello, non operabile: in coma per 11 giorni. Non potevo parlare, ero impotente, se non fosse stato per mio marito, sempre accanto a me, avrei fatto la fine di Kelly. Dopo il mio recupero sono diventata vicepresidente della Coalizione per la prevenzione dell’eutanasia». «Questo è un piano inclinato, passo dopo passo rischiamo di renderci complici di atti che avremmo precedentemente considerato omicidi. Non si può approvare una legge che consenta agli operatori sanitari, con o senza il consenso dei fiduciari, di sospendere l’idratazione di un paziente non terminale. La sedazione di una persona in stato di coscienza minima non assicura che il paziente non stia soffrendo, non potremmo mai saperlo. Una legge non può togliere alle persone il diritto fondamentale alla vita e a morire di morte naturale».