Carlo Cottarelli, presidente dell'Osservatorio sui Conti pubblici della Cattolica.
Le leggere correzioni che il governo ha fatto alla nota di aggiornamento al Def non bastano ad addolcire il giudizio di Carlo Cottarelli, presidente dell’Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università Cattolica.
L’esecutivo ha mantenuto il deficit al 2,4% nel 2019 ma lo ha ridotto per i due anni successivi. È un buon passo avanti?
Il miglioramento di cui si parla è contenuto, magari può aiutare a calmare i mercati. Il problema è che se anche quegli obiettivi di deficit sono raggiunti sono altri tre anni in cui l’Italia rimanda l’aggiustamento dei conti pubblici. Fra tre anni ci ritroveremo comunque con un deficit vicino al 2%, che vorrebbe dire più o meno ai livelli del 2018.
Queste correzioni possono bastare anche a rendere la prossima manovra più accettabile per la Commissione europea?
Se le regole sono applicate come scritte, questa piccola riduzione non è sufficiente. Magari l’Ue potrebbe apprezzare lo sforzo, ma diventa una questione di interpretazione molto generosa delle regole, non so se è possibile farla. Bruxelles potrebbe temporeggiare e rinviare il suo giudizio alla primavera: alla fine l’Ue è sempre stata molto morbida con tutti. A me preoccupano più i mercati che l’Europa.
Sui mercati lo spread è salito a quota 300, poi è rientrato, comunque non è decollato come molti avevano previsto. Perché? Probabilmente se il governo non avesse deciso di rivedere verso il basso il deficit lo spread sarebbe salito ancora. Il punto però è un altro: io credo che eviteremo una crisi in questo momento, ma partendo da un deficit a questo livello e da un debito che si riduce minimamente ci vuole poco perché uno choc esterno come un brusco rallentamento dell’economia faccia ripartire la corsa del debito.
A quel punto il problema del debito italiano tornerebbe al centro dell’agenda europea. Si rischia davvero un’uscita dell’Italia dall’Unione monetaria?
Un paese con un debito pubblico alto e uno spread alto è chiaro che ha una forte tentazione di uscire e i mercati incorporano nei tassi di interesse il rischio di un’uscita.
Sembra che il governo indicherà una crescita del Pil dell’1,6% per il prossimo anno, per poi salire all’1,7 e al 2%. Sono stime realistiche?
Insomma, mi sembra difficile raggiungerle: siamo cresciuti dello 0,2% negli ultimi due trimestri, per arrivare all’1,6%. Dvremmo crescere con una media dello 0,5% a trimestre. A parità di altre condizioni un aumento del deficit fa crescere temporaneamente il Pil, poi però con lo stesso livello di deficit il Pil non cresce ulteriormente e il tasso di crescita diventa zero. Questo è il meglio che può succedere, ma se lo spread va su quello ha un effetto negativo che può più che compensare l’effetto espansivo del deficit.
La sorprende che, nonostante i costi che comporta, gli aumenti della spesa pubblica continuino a portare molto consenso ai governi?
È chiaro che chi va in pensione prima o chi riceve il reddito di cittadinanza è contento. Se poi gli si dice: io non te lo faccio pagare con maggiori tasse, è anche più contento. La gente non percepisce l’aumento della probabilità di una crisi come quella del 2011. Credo sia nella natura umana non percepirlo e questo porta una tendenza a fare più deficit.
La sua partecipazione settimanale a Che tempo che fa è diventata un caso politico.
Io non ci guadagno niente, lavoro gratuitamente per l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, che ha un accordo con la società di produzione del programma per fornirle questo servizio.