Il commissario Luigi Calabresi - Fotogramma
Il 17 maggio 1972 veniva assassinato a Milano il commissario Luigi Calabresi, vicecapo dell’ufficio Politico della questura. Freddato alle 9.15 sotto casa, in via Cherubini, davanti alla sua Cinquecento. Una Messa sarà celebrata, oggi alle 10, nella chiesa di San Marco, presieduta dall’arcivescovo Mario Delpini. Alle 11, poi, la commemorazione in questura, col capo della Polizia Lamberto Giannini, dove prenderà la parola anche Gemma Capra, vedova del commissario.
«Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino», furono queste le sue prime - enormi - parole, che riuscì a sibilare quando a 25 anni, madre di due figli con un terzo in grembo, don Sandro Dellera, parroco di San Pietro in Sala, la chiesa in cui si era sposata, trovò per primo il coraggio di riferirle che quel trambusto sotto casa era proprio per la ragione che temeva, da tempo.
Un omicidio annunciato, perché una martellante campagna di stampa, con tanto di raccolta firme di quasi 800 noti intellettuali e dirigenti politico-sindacali in calce a un documento pubblicato dall’Espresso, aveva indicato il commissario come «il responsabile» della morte del ferroviere Luigi Pinelli.
Le indagini sulla strage di piazza Fontana, sulla spinta anche dei Servizi deviati del tempo, avevano imboccato una pista sbagliata, quella anarchica, per coprire la matrice neo-fascista poi storicamente - ma mai a livello giudiziario - accertata. Il ferroviere, in base a una sentenza molto discussa, era caduto dalla finestra della stanza di Calabresi, al quarto piano per un «malore attivo».
Ma il commissario, è stato accertato, non era in stanza in quel momento, chiamato nottetempo dal questore.
Tre giorni prima, il 12 dicembre 1969, l’ordigno esploso alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, aveva ucciso 16 persone, ferendone 88. A far montare la polemica contribuì anche il fatto che il questore Marcello Guida avesse un passato da direttore della celebre colonia di confino politico di Ventotene, durante il Regime.
Ma per due anni e mezzo Calabresi divenne l’unico capro espiatorio, additato da tutti e protetto da nessuno. Quella strage viene definita la "perdita dell’innocenza".
In realtà a Milano, in pieno "autunno caldo", la violenza era già esplosa il 19 novembre, meno di un mese prima del tragico venerdì pomeriggio della bomba, portando alla morte orrenda di un agente della Celere, Antonio Annarumma, finito con il cranio fracassato nella sua camionetta da un tubo Innocenti, senza che si fosse trovato un solo testimone disposto a collaborare.
Ma quella mattina di 50 anni fa la signora Gemma indicò la strada che avrebbe, forse, potuto evitare al nostro Paese un bagno di sangue, quello dei successivi "anni di piombo": la strada del perdono e della riconciliazione, che poi ribadì con un celebre necrologio: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
La riconciliazione è avvenuta, per lei, con Leonardo Marino, il pentito che confessò, 16 anni dopo (prima a un religioso e poi ai magistrati) di esser stato lui l’autista del commando omicida. Sentenze contestate, ma confermate in ogni ordine e grado (revisioni processuali e Corte di Giustizia europea inclusi) hanno indicato nell’ex leader di Lotta Continua Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, capo del "Servizio d’ordine" di Lc, i mandanti, e in Ovidio Bompressi l’esecutore materiale.
Sofri non ha mai accettato questo verdetto anche se di recente ha ammesso di sentirsi in qualche modo "corresponsabile" per le parole di violenza usate dal suo giornale. Più avanti si è spinta Licia Rognini, vedova Pinelli, stringendo la mano alla vedova del commissario: «Avremmo dovuto farlo prima», si sono dette, al Quirinale.